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Autore "Pane e latte" di Jan Cvitkovic (Leone del Futuro a Venezia 2001)
Pythoniana

Reg.: 06 Lug 2004
Messaggi: 1257
Da: Gorizia (GO)
Inviato: 06-08-2004 16:35  
Dopo un periodo trascorso in una clinica per alcolisti, Ivan torna dalla sua famiglia: la moglie Sonia, che per tirare avanti si arrabatta facendo le pulizie, ed il figlio Robi, che sostiene di voler lasciare la scuola per andare a lavorare come stagionale in Italia. Il sogno del protagonista di poter riprendere una vita normale accanto ai suoi cari (simboleggiato dal pane e dal latte del titolo), naufraga ben presto, tra la dipendenza dall’alcool da cui Ivan non riesce a liberarsi e quella dalla droga di cui scopriamo essere vittima Robi.

Lo ammetto, partivo bello speranzoso. Il film, oltre al Leone del Futuro a Venezia nel 2001, aveva ricevuto buone critiche e Cvitkovic è un bel personaggio (tra l’altro, oltre ad essere considerato l’enfant prodige del cinema sloveno, gli si deve la paternità del festival di Isola, Kino Otok). E però, alla resa dei conti, si è rivelato una bella delusione. Lungo tutta l’ora e poco più della pellicola, girata in un azzeccato b/n, si respira un’atmosfera almeno in parte claustrofobica ed opprimente (e fin qui nulla di male): la subisce il protagonista, che si muove in un ambiente in cui tutto sembra ricordargli il suo status di alcolizzato o pare volerlo riportare verso la bottiglia (i bambini che lo irridono, la cassiera del market che sospetta che abbia rubato, l’amico che lo porta a bere); ma lo subisce anche lo spettatore, intrappolato senza via di scampo nella gabbia costruita dal regista, gabbia che inizia e finisce (e questo è ai miei occhi il limite maggiore del film) con le vicissitudini di Ivan. Mi spiego: qualcuno ha lodato la capacità di fare un film incentrato sulla povertà e sul disagio nella relativamente ricca Slovenia; discorso che non mi trova d’accordo, perché presume un’attenzione al contesto sociale che dalla pellicola non traspare. È vero, siamo in Slovenia, ma potremmo essere in qualsiasi altra parte d’Europa, e certo Cvitkovic non si spreca per spiegarci le cause della discesa agli inferi dei suoi personaggi. Se di ambizioni neorealistiche si può parlare, queste vengono irrimediabilmente frustrate da una scelta narrativa improntata al più severo hic et nunc.
Detto dei paletti che Cvitkovic pone alla sceneggiatura, c’è da dire di quello che troviamo tra questi paletti, ed anche qui, a mio avviso, non c’è da entusiasmarsi: l’odissea del protagonista è costruita in maniera troppo programmatica e con il piede decisamente calcato sul pedale di una tragedia ineluttabile, a volta anche in maniera piuttosto grossolana. Esempio perfetto ne sia la scena in cui il protagonista incontra il vecchio amico Armando che, in nome dei bei tempi andati, lo convince ad andare a bere insieme: a questo punto anche il più ingenuo degli spettatori intuisce che Ivan sta per scivolare di nuovo nel baratro. Pare eccessivamente costruita a tavolino, poi, anche la sequela di eventi che porta il trio di personaggi principali a trovarsi prima nello stesso locale, dove la tragedia sta per raggiungere il suo apice, poi nella stessa stanza d’ospedale, in una scena conclusiva che non si capisce se voglia essere all’insegna della speranza o dello sberleffo.
Cosa rimane, allora, da salvare? La prova del protagonista, Peter Musevski, gigione ed istrionico senza esagerare, e l’ispirazione del regista che comunque traspare in alcune inquadrature, come quelle, speculari, di Ivan sulla strada per e dalla taverna, contornato dai profili minacciosi (e resi con un ottimo chiaroscuro) delle case.
Attendo con speranza e curiosità la prossima prova di Cvitkovic e mi piace pensare che, con una buona sceneggiatura in mano, il regista possa comunque fare molto bene.

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"Riempi il tuo cranio di vino prima che si riempia di terra, disse Kayam." Nazim Hikmet

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