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Autore Il Cinema rivoluzionario giapponese
Richmondo

Reg.: 04 Feb 2008
Messaggi: 2533
Da: Genova (GE)
Inviato: 25-06-2008 15:18  
Forse l'espressione non è delle più felici, ma credo che ciò che oggi il Cinema giaponese a tutti gli effetti è - e per averne un'idea un minimo basilare, consiglio di leggere (fra le fonti forumiche, che preferisco citare, qui, rispetto a quelle davvero autorevoli dei critici professionisti) questo topic del Demone, un utente la cui assenza dal forum oggi rimpiangiamo più o meno tutti - non può essere a pieno compreso se non si opera un'esporazione verticale ed orizzontale. Cronologica e geografica, che spazi dalla cultura orientale, di cui per anni il Cinema nipponico si è fatto portavoce, a quella occidentale, specialmente europea, che in qualche modo ha interferito con l'evoluzione e la nascita di alcuni concetti (taluni inediti) nell'area giapponese.

Direi che è opportuno rendersi conto che il Cinema non è prerogativa di pochi. Essendo un linguaggio, conosce diverse forme con cui esso possa essere espresso. Direi che si divide in differenti idiomi, ciascuno dei quali acquisisce autonoma rilevanza e schemi o codici personalissimi.

Per questa ragione credo che nessun Cinema possa, al pari di quello giapponese, confermare tale ipotesi, se raffrontato con tutti gli altri.

L'idea di questo topic, quindi, non è creare delle caste all'interno dell'ambiente cinematografco, di stampo razzista quando non secessionista. Il mio pensiero era quello di riunire e catalogare meglio opere che raggurppate omogeneamente riuscirebbero a garantire spunti dui riflessione più coerentemente trattati.

E per farlo credo che nulla giovi di più di alcune considerazioni sul Cinema nipponico, tanto attuale quanto passato, che mai sarebbe giunto ad assumere le sue fattezze odierne, se non fosse stato per un periodo di tansizione che ne ha delineato l'aspetto innovativo ed incontenibilmente rivoluzionario.

Non è aspetto irrilevante, infatti, quello che riguarda la crisi profonda che ha subìto il concetto di "armonia" in tutta l'arte giapponese, in particolare proprio nella Settima sua componente, in questo periodo storico. Se prima degli anni Sessanta, infatti, tutta la produzione sembrava concentrare le proprie attenzioni sul rapporto "oriente-occidente" (da un punto di vista contenutistico) azzardandosi, al massimo, a trattare un'eventuale deriva di tale "armonia" proprio considerando il rapporto che correva fra occidentali ed orientali - evadendo, ovviamente, in simili concetti anche nel campo tecnico, per cui i movimenti di macchina non rifuggivano mai il piacere della contemplazione, evitando di suscitare reazioni scomposte della vista, quando non veri e proprii turbamenti interiori - ora (negli anni 60) tale sensibilità parrebbe essersi smarita per strada.

Si va sempre più dlineando un Cinema di de-identificzione: mancano quei personaggi "positivi" nei quali lo spettatore possa riconoscersi facilmente. Vengono a sgretolarsi le certezze di un'immagine che avvicini la platea all'espediente della narrazione stessa. Oltre che, naturalmente, ai discorsi già affrontati del ribaltamento contenutistico, per cui determinate tematiche vanno perdendosi.
Insomma, volendo banalizzare il tutto, ci sarebbe da affermare che il Cinema giapponese degli anni sessanta ha rotto col passato in maniera netta, divenendo davvero arte autonoma, invece che mezzo di identificazione nazionale.

In quest'ambito, è essenziale soffermarsi a riflettere su un film estremamente simbolico e che getta le premesse di cui abbiamo appena discusso.
Si tratta di Frutto pazzo, un film quasi sconosciuto in Italia e che scoprii grazie a Dario Tomasi, direi, onestamente, davvero il più grande esperto di Cinema giapponese in Italia, il quale si occupò di una retrospettiva sul Cinema nipponico all'inizio degli anni Novanta, ma che grazie alla sua zelante solerzia ora è possibile trovare anche su carta stampata.
Riuscii a recuperare questo film di Nakahira Yasushi (poi rinominato nella retrospettiva torinese, inspiegabilmente, Nakahira Ko) l'anno scorso, quando le mie conoscenze del Cinema giapponese si limitavano al Rashomon di A. Kurosawa, per cui avevo in mente un certo tipo di impianto stilistico particolare, oltre che avendo un giudizio fortemente condizionato proprio dalla diversità di quel Cinema rispetto al nostro.
Con Frutto pazzo, invece, che da noi è rintacciabile solo con il titolo La stagione del Sole (io lo trovai presso un circolo dopolavoristico, vera ve propria benedizione per la mia passione cinefila), mi resi conto che la mia ignoranza in materia meritava di essere soppressa, sebbene fossi già consapevole della difficoltà di tale omicidio.
Credo che anche dopo aver visto diversi film di Mizoguchi, ormai quasi tutti i Kurosawa (autore del quale ho quasi completato la raccolta di dvd), pochi Ozu, alcuni Oshima, un Imamura, un Kaneto, alcuni Gosha, questo Ko ed altri film sparsi, qua e là, di svariati autori più o meno ancora attivi....La mia conoscenza dell'universo giapponese, per mezzo del suo Cinema, sia pari più o meno a zero, alla luce proprio di ciò che disse Ozu: Io rappresento l'un per cento della cinematografia giapponese.
Ah, bene. Detto da lui che ha fatto almeno cinquanta film, di cui io ne ho visti cinque, la cosa suona confortante. Come dire: rassegnamoci. O impariamo il giapponese e ci trasferiamo a vivere lì per qualche anno (come ha fatto proprio Tomasi), oppure ciao ciao.
Va beh, pur avendo optato per il ciao ciao, non ho comunque rinunciato a recuperare il recuperabile, così, dopo essermi imbattuto in quest'opera, ho coltivato la mia passione attraverso il Fuori orario ghezziano (che mi ha fatto amare alla follia film come L'anguilla, di Imamura) e grazie anche alle collane di Rarovideo, ottimamente redatte, ad opera dello stesso Ghezzi o di Bruno Di Marino, per mezzo delle quali sono riuscito a venire in possesso di film come Max Mon Maour di N. Oshima (uno dei film più irriverenti del Mondo, proprio alla faccia di quel Cinema così ossequioso verso l'armonia dei segni e dei significati) o i film di Yasujiro Ozu Crepuscolo di Tokio e Buon giorno, per non parlare di Sanma no aji (Il gusto del saké), l'ultimo e preziosissimo film di questo regista così legato al "vecchio Cinema giapponese", ma che non ha mancato, nella seconda parte della sua filmografia (di cui questo film è la conclusone) di mirare le proprie attenzioni a quelle tensioni su cui gran parte della Settima arte nipponica è, dagli anni Sessanta, costruita.

Comunque, tornando al capostipite di questo rinnovamento: Frutto pazzo di Ko comincia ad imprimere sulla pellicola quel vitalismo di cui gran parte del Cinema precedente a quegli anni sembrava deficitare. Ringraziando l'esistenza (ormai sempre più minata dalla disorganizzazione, purtroppo) della Cineteca nazionale, nella mia città, in grado di rifornire le rare sale d'essai del capoluogo ligure in occasone delle più attese retrospetive, vorrei citare anche un autore il cui nome mi è capitato di leggere su alcuni libri sul Cinema nipponico, ma di cui ho vuto l'onore di vedere un suol film, che è Il bacio. L'autore è Masumura. Ecco, direi che con Frutto pazzo (quindi con l'avvento di Ko) e con quest'ultimo film citato, si respira già la cesura insanabile che si frappone fra due mondi che ormai appaiono così lontani.
Vorrei ricordare che, mentre anni ed anni prima, sul versante occidentale, un certo David W. Griffith dovette "giustificarsi" attraverso il Cinema per aver dato un senso allo stesso e per averlo rinnovato (o inventato, si potrebbe quasi dire) sull'altra sponda della Settima arte ci fu proprio Masumura, che per mezzo della parola (e non dei film) volle in qualche misura giustificare il suo sacrilego abbandono dei codici e delle formule che il Giappone cinefilo aveva fatto proprii.
Il Cinema giapponese aveva sempre tentato di descrivere una raltà omogenea e legata dai canovacci dell'armonia, ma mai pretendendo di fuggire da un realismo coerente. Masumura, invece (e ciò è ravvisabile anche ne Il bacio, che pure risale agli anni Cinquanta) sconvolge simili impianti, simili schemi narrativi o contenutistici, attraverso una rappresentazione grottesca (incline quasi al Cinema d'animazione, nella velocità e nell'animosità dei gesti dei personaggi - i quali, per chi conosce un minimo qualche film "antico" del Giappone, hanno sempre mantenuto un rigore comportamentale, sul set, pari a quello dell'hashigakari teatrale del No, rifacendosi alla linearità coreografica dei personaggi disposti sul palco scenico ed evitando movimenti bruschi o violenti, che allontanassero lo spettatore dall'essere totalmente coinvolto nell'opera e dall'evitare, quindi, di giudicarla o di riflettervi).
Qualcuno, addirittura, lo tacciò di povertà di spirito e di sentimento. Critiche ben accette, dall'eclettico regista. Perché i suoi obiettivi sono proprio quelli di negare l'atmosfera, distorcere la verità e rifiutare il sentimento.

Tutte qualità (che all'epoca suscitavano non poco scandalo) che si ritrovano anche in Frutto pazzo di Ko, il cui soggetto, caratterizzato da un incrocio di sentimenti passionali (ed inclini all'erotismo più torrido) che non suonano più come sentimenti, fino a sfociare nella tragedia a nella "decadenza" stessa dei sentimenti, rievocando certi echi Viscontiani che, però, probabilmente non riguardano minimamente questi registi.
Oggi, nel gurdare un film come Mio fratello è figlio unico di Lucchetti, quando assistiamo ai sospiri di Scamarcio e della sua fidanzata, uditi da Elio Germano, non verremmo investiti da quel senso di disagio che, al contario, gli spetattori Giapponesi provavano sulla loro pelle, nell'assistere al film di Ko.
La storia di due fratelli che amano la stessa donna, che sconvolge i canoni fondati sulla repressione e sull'omologazione, per esaltare la passionalità, l'erotismo più spinto, fino a giungere a raffigurare con crudo distacco "ciò che l'uomo giapponese non vorrebbe mai essere", rappresenta il vero punto di svolta nel Cinema giapponese. Un punto di svolta da tenere in considerazione, intorno al quale ruota ancora oggi la Settima arte nipponica e senza la cui dovuta considerazione, saremmo impossiblitati a comprendere quel maniacale senso per lo "stridere", per la conflittualità, per il male tenuto alla stregua del bene che il Cinema giapponese moderno sa presentarci con stupefacente noncuranza.

Ragion per cui, fatte queste debite considerazioni, si può iniziare, nei prossimi giorni, a parlare di Cinema spicciolo, di film in particolare, di tutto ciò che avremmo voluto dire, abbiamo sentito dire, abbiamo detto o che diremo sul Cinema Giapponese. Un universo, oggi come ieri (ma per motivi differenti, oggi, rispetto a ieri) totalmente antitetico al nostro.
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Richmondo

Reg.: 04 Feb 2008
Messaggi: 2533
Da: Genova (GE)
Inviato: 05-08-2008 12:43  
A questo punto del viaggio nel Cinema giapponese, sono giunto alla conclusione che l'evento della scoperta dell'America - quando Cristoforo Colmbo si ritrovò sulle coste di San Salvador pensando in realtà di aver trovato la nuova via per le Indie - sia la vicenda storica più filmica, più intrisa dell' essenza cinematografica, delle fibre del racconto e dell'assenza di pause o vuoti. Immaginando la storia di Colombo, noi immaginiamo un film. Ed oltre a questo aspetto, trovo interessantissimo notare come la vicenda dell'esploratore genovese sia incredibilmente cinematografica anche nei suoi contenuti, quasi fosse stata scritta per un soggetto, e riesca a rappresentare la conoscenza e l'approdo dell'uomo a qualunque meta bramata. Anche il Cinema.

Credevo che qualunque film potesse essere prodotto nel mondo, rispondesse agli stessi canoni di tutte le pellicole che io avevo già visto. Dopo tutto, un film è un film. E invece mi sono reso conto, come l'uomo occidentale dopo che Colombo scoprì L'America, che il Cinema si è posto non su una sola dimensione, ma su più universi, per cui la sua forza e la sua filosofia percorre strade totalmente antitetiche alle nostre. Ma cercherò, a differenza di Colombo, di non morire nell'illusione di aver scoperto le Indie.

Ragion per cui, ora, mi accorgo che ciò che il Cinema è, qui, in Italia o in Europa, non è in Giappone e viceversa. Ma apprendo anche che c'è una tale sintonia fra le diversità, una completa attrazione fra i poli opposti, che quell'oscuro universo che ignoravo ha ispirato il nostro Cinema, come la Luna influenza le maree. Accade anche il contario. Si tratta di due mondi che si parlano, si sussurrano. E solo chi ha la capacità e la non pretesa di "occidentalizzare" il linguaggio di questo mondo, di non appropiarsene, ma di farlo, se mai, proprio, potrà comprendere come una via di comunicazione sia sempre aperta, di come quel Cinema giapponese degli anni Sessanta, di cui avevo parlato, abbia goduto (e permetta a quello attuale di godere) di un suggestivo interscambio di culture, che non cancellano la memoria storica, ma sovvertono unicamente qualche imposizione ideologica.

Dico questo, soprattutto dopo la visione di Frutto pazzo (o La stagione del Sole, titoliamolo a nostro piacimento: mi permetterò di chiamarlo, disinvoltamente, in entrambi i modi, per sottolineare la mia mancanza di certezze in questo mio viaggio).

Lo dico, principalmente dopo aver appreso, dalla cara penna di Tomasi, che Francois Truffaut si è avvicinato al Cinema grazie a quest'opera.
Fu una dichiarazione scritta "in soggettiva" - per così dire - da Shintaro Ishihara, la voce nascosta, il soggettista (e sceneggiatore) di quest'ottimo film di Ko, che a sua volta ha avuto modo di dirigere l'episodio di un film (L'amore a vent'anni del 1962, che purtroppo mi manca) la cui regia vanta anche altri illustri nomi occidentali (Ophuls, Wajda, il figlio di Rossellini ed altri) e la cui supervisione, guarda caso, era affidata proprio a Francois Truffaut.
Il regista francese apprezza notevolmente questo tipo di Cinema, così ribelle, in qualche modo. E forse no è azzardato affermare che grazie a Ko, la Nouvelle Vague ha assunto determinati aspetti della sua conformazione. Il punto è che come tutti i movimenti che nascono da un idem sentire (qui, dei cineasti giapponesi), anche qui, l'imput, parte da personaggi che hanno fatto Cinema sulla carta, da dietro coloro che stavano dietro la cinepresa. Posso dire che Ishihara sia stato un po' lo Zavattini giapponese, per quello che ho capito di lui?
Va beh, lo dico.
Ma, soprattutto, mi preme sottolineare come quell'intrscambio di sensazioni, di mischiarsi di culture e di filosofie, pur nel mantenimento dela propria identità, sia avvenuto sotto il segno di un tacito assenso: sono tante le suggestioni che sono passate da oriente ad occidente e viceversa. E mentre prima il rigore formale dell'arte nipponica vietava di approcciarsi a visioni differenti,a netafore o simbolismi universali, proprio dagli anni Sessanta, seppur permanga quella concezione di "bene" e di "male" che non risponde ai nostri criteri, i registi nipponici hanno voluto aprire una breccia nel movimeno, come si suol dire.
Lo testimonia, probabilmente, la citazione, nel film in questione, da Un posto al sole, ma, soprattutto, la commistione, anche fra i divrsi film, di un uso dinamico della cinepresa.
Lo stesso Masumura ha indotto nella tentazione di credere che il suo modo di "filmare l'insieme", rinngando la forza del primo piano, fosse incrdibilmente tradizionale e molto vicino a certo Cinema di Mizoguchi (Cinque donne attorno ad Utamaro, per esempio). In realtà la novità sta proprio nel rendere su schermo l'irrequietudine giovanile. Ne Il bacio la mdp non ha meta, come i suoi protagonisti, oserei dire. E tutto diviene frenetico, dai movimenti stessi di machina, ai dialoghi, ai gesti degli attori, per arrivare alla concezione dell'uomo che Masumura dimostra di avere: c'è confusione, grande confusione fra "soggetto" ed "oggetto". I pesonaggi sono in balia degli eventi ma, ancor peggio, del torrido decesso dei sentimenti, e vengono magistralmente equiparati a delle "cose".
Ma a pensarci bene, non sembrerebbe di ritrovare, effettivamente, simili suggestioni ed impressioni, anche nell'ermetica ironia - che ha il retrogusto del tragico - di Jules e Jim, in cui l'uomo, o il giovane, non è che un oggetto in balia di un sentimento che è troppo forte, per preservarsi puro?
Io dico di sì.
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TomThom

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Inviato: 05-08-2008 12:50  
Bel postone, Rich...
Di Ozu non puoi non vedere Viaggio a Tokyo e Tarda Primavera, comunque...Vere pietre miliari del jappostyle, come farà intendere poi Wenders nel bellissimo omaggio a Ozu e al modus vivendi giapponese, Tokyo-Ga...
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Richmondo

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In data 2008-08-05 12:50, TomThom scrive:
Bel postone, Rich...
Di Ozu non puoi non vedere Viaggio a Tokyo e Tarda Primavera, comunque...Vere pietre miliari del jappostyle, come farà intendere poi Wenders nel bellissimo omaggio a Ozu e al modus vivendi giapponese, Tokyo-Ga...




E' vero. Particolarmente Viaggio a Tokyo riesce ad infondere quel senso di inevitabile mutamento, di esautorazione di valori che la società nipponica non sente più suoi. Ozu è sempre stato regista di famiglie, come Mizoguchi lo è stato di donne. E proprio il cambiamento, il passare a mettere su piani sfalsati le due generazioni che hanno sempre composto le famiglie di Ozu (genitori e figli) portano il Cinema giapponese a smettere di glorificare valori e sentimenti che in verità hanno già da tempo cominciato a sgretolarsi sotto la forza tanto dell'occidentalizzazione, quanto della vacuità dei modi di pensare orientali.
Ma ci sarebbe da rimandare il discorso anche a Non rimpiango la mia giovinezza di A. Kurosawa, che a suo modo è stato precursore, in tempi per nulla sospetti, di questa impossibilità di conciliazione, anticamera di una vera e propria esplosione emotiva, passionale, che troverà ampio sfogo non tanto con Ozu (perché, nonostante il suo sia un cinema che tende abbastanza a staccarsi dalla compattezza nipponica, ma desidera portarsi su percorsi alternativi, su visioni più intime e meno corali, viaggiando costantemente dal particolare all'universale, ma semopre focalizzando soggetti isolati i un contesto che stenta ad aiutarli a congiungersi con altri personagi....comunque stilisticamente può dirsi che i suoi simbolismi siano sempre stati abbastanza armoniosi, i suoi segni sempre piuttosto placidi e contemplativi, con rari casi di eccessi fokloristici, visionari o rivoluzionari - in tal caso mi viene in mente Buon giorno, che fra quelle che ho visto è contenutisticamente e stilisticamente l'opera più insolita, inusuale e atipica di Ozu: rivoluzionaria in piena regola), quanto piuttosto con registi quali Imamura, Fukasaku o Kaneto.
Mai e poi mai un film come Onibaba di Kaneto sarebbe stato considerato un film giapponese, prima degli anni sessanta. Ed è proprio per via della mancanza di spirito nipponico che si ravvisa, per esempio, in Kurosawa, che questo regista è considerato il meno giapponese che ci sia mai stato in Giappone.

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L'amico Fritz diceva che un film che ha bisogno di essere commentato, non è un buon film . Forse, nella sua somma chiaroveggenza, gli erano apparsi in sogno i miei post.

[ Questo messaggio è stato modificato da: Richmondo il 05-08-2008 alle 13:04 ]

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