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Autore La masseria delle allodole
Petrus

Reg.: 17 Nov 2003
Messaggi: 11216
Da: roma (RM)
Inviato: 22-03-2007 08:30  
Un soldato entra in una casa di benestanti. Una terrina ricolma di zuppa troneggia in mezzo alla tavola. La osserva, la afferra e ne versa il contenuto su una bianchissima tovaglia, sotto lo sguardo attonito e spaesato dei commensali. Sghignazzando, imbocca la porta e se ne va senza colpo ferire.
Un bambino viene camuffato da femmina, con tanto di orecchini e gonne improvvisate, ed è costretto a rimanere in questa condizione per diverse settimane, per sfuggire a morte certa.
Una donna anziana è costretta a marce forzate, il vento e la steppa la fiaccano, ma nessuno può rimanere indietro. Un colpo di carabina e di nuovo in marcia, destinazione ignota, terrore e fatica, al contrario, quasi tangibili.
Una serie di flash che fotografano una situazione realmente accaduta durante quello che Hobsbawn ha definito “Il secolo breve”, il XIX, cento lunghi anni accorciati drammaticamente dalla ferocia di combattimenti e massacri, teatro di una logorante e triviale guerra civile europea. Storie ricche di episodi e di memorie dolorose, che hanno visto uomini bianchi diventare carnefici di altri bianchi, sistematicamente, senza ragione alcuna se non un odio esaltato, che mescolava elementi religiosi e nazionalismo esasperato. Qualunque lettore non potrà non aver pensato all’olocausto perpetrato dai nazisti durante il secondo conflitto mondiale. Ma sorprendentemente ci stiamo riferendo ad altro, ad un altro genocidio per troppo tempo dimenticato, che vide un intero popolo (quello armeno residente in Turchia) di quasi 1,5 milioni di persone, eliminato con una cura maniacale, senza precedenti nella storia moderna.
A partire da uno dei romanzi più famosi scritti sull’argomento, “La masseria delle allodole”, dell’italo-armena Atonia Arslan, i fratelli Taviani tornano sul grande schermo, affrontando coraggiosamente un argomento sul quale tanto c’è ancora da scoprire, e di cui tanto si dovrà (o si dovrebbe) dibattere.
La confezione è un po’ antica, di maniera: per tanti versi si intravedono le stesse difficoltà – sempre che si possano definire tali – dello stare al passo con i tempi di una modernità che viaggia sui binari dei ritmi vertiginosi e dei testi destrutturati che si sono avvertite nell’ultimo lavoro di Monicelli.
Non per questo i Taviani non riescono a costruire un film interessante, mantenendo fede alla loro peculiare cifra stilistica e riuscendo a dare vita ad un corpus narrativo solido, anche se a volte tendente eccessivamente al melò.
Una pecca rilevante è forse quella di non riuscire a sfumare bene i grigi, in una situazione personale e in una condizione storica dove il bianco e il nero probabilmente non erano presenti. Al contrario il film è pieno di bianchi, magari un po’ offuscati, e di neri appena smorzati, anche se tenta a più riprese di scrollarsi di dosso questa sensazione. Il che semplifica forse eccessivamente gli intenti, facendo risultare poco organico e ficcante l’architettura del testo, ma non per questo ne inficia la pregnanza argomentativa e la passione encomiabile infusa nel racconto di una storia che descrive un periodo, non cedendo mai alla tentazione di una memorialistica intimista. Un film forse poco al passo coi tempi, ma in fondo solido e necessario, testimonianza di come una certa tradizione del (buon) cinema italiano sia dura a morire, nonostante annaspi, per incassi e visibilità, in mezzo ad un calderone di mediocrità.

già pubblicata qui
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"Verrà un giorno in cui spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate"

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kubrickfan

Reg.: 19 Dic 2005
Messaggi: 917
Da: gessate (MI)
Inviato: 18-04-2007 00:30  
Trama : nel 1915 una famglia armena sente lontana la guerra in atto tra Russia e Turchia, e convivendo pacificamente in territorio Turco vive giornate tranquille in condizioni agiate. Ma questa felicità è destinata a non durare, e dopo la morte dell'anziano patriarca un sinistro presagio sembra purtroppo realizzarsi...

Commento: Dal libro di Antonia Arslan. Gli Armeni che anticipano la tragedia Ebrea, persone piene di cultura e intelligenti che costruiscono ricchezze in seno a uno Stato che li accoglie con un occhio di cupidigia verso questo florido benessere, pronto a carpire ogni loro bene invidioso e timoroso di tanta prospera capacità. La Masseria del titolo è la casa di campagna, una sorta di Last Hope privata in cui loro non devono vivere a contatto con una popolazione che nemica non è, per il momento, ma che di fatto non ha di buon occhio la loro presenza. Nella Masseria ci si sente liberi, tranquilli, e difatti diviene una sorta di inutile eremo per cercare di uscire dagli orrori della persecuzione.
Ma anche quando ci si autocostringe nella riserva la cosa sembra non bastare, in quanto la furia cieca dell'odio e della violenza non ha confini, e non si deve fare come il bambino perchè inutile nascondersi ma bisogna combattere. Questo sembrano dire i Taviani in questa opera che racconta la storia di una famiglia e piena di simbologie, iniziando il film con una citazione strepitosa da Quarto potere con il chicco d'uva che cade (citazione poi ripresa con una mela in una forma diversa per simboleggiare che si lascia la tentazione di trovare un paradiso per conservazione la dignità). Rendendo in immagini il loro stesso scibile filmico, i due fratelli registi iconizzano la sofferenza nella croce che viene utilizzata per le sofferenze delle donne e nella presa delle cose più care. Non a caso infatti all'aspirante pugile che cerca l'America (immagine del sogno) viene tagliato il braccio, al dottore che salva le vite impedito di metterne al mondo altre, alle donne i loro uomini costretti ad abbandonarle mentre i Turchi approfittano di esse.
Un lavoro sentito e composito, che prosegue man mano introducendo nuove situazioni e scenari rispetto alla fase di inizio, coinvolgendo i parenti italiani. La cosidetta fase dell'uva (prosperità iniziale degli acini maturi nella prima inquadratura, poi speranza garzie al gioiello che ritrae i frutti della vendemmia) vive fasi alterne di acidità e speranza, metro e bilancia della disperazione e della voglia di ribellarsi a un destino segnato.
La scena clou del pathos tiene a morte e battesimo un bimbo, stritolato disperatamente, atto a mostrarci quanto un popolo sta soffrendo nella morsa di due belligeranti. Belle scene sicuramente, adeguata musica ad accompagnarle, e a maggior pregio non ci si cura di non mostrare il sangue (che vediamo dalla prima scena e per tutto il film con continui rimandi ai colori dei vestiti). Il film però, nonostante tutti questi pregi, un difetto di base l'ha, la mancanza di un cast all'altezza dell'impegno della storia e di alcune colpevoli cadute nel romanzo tv in alcune situazioni che estraniano. La presenza di Preziosi non è certo una punta di diamante e rimane ancorata al Conte Ristori di Elisa di Rivombrosa, senza nessun sussulto di maggiore autentica drammaticità, mentre Paz Vega, nota per aver lavorato con Almodovar in Parla con lei ma sopratutto per aver mostrato le sue grazie con Lucia y el sexo e alcune commediole, una con Adam Sandler (Spanglish), non è certo attrice per rendere bene una parte principale e composita come quella che interpreta sentitamente ma con risultati scarsi (mostrando senza problemi anche se in scene molto pudiche le sue grazie notevoli). La presenza poi di un attore fondamentalemnte brillante come Dussollier (Cuori di Alain Resnais) nei panni di un gerarca dell'esercito, sembra più una partecipazione da guest a uno sceneggaito tv tanto la parte gli è estranea.
Anche alcune scelte di trama sono forzate e un po' troppo debitorie della fiction tv, come il finale forzato per arrivare a una certa situazione di pathos anticipatrice del coro di conferma della volontà dei giovani turchi di non volere le minoranze indesiderate, oppure coem il soldato buono in una tenda ordinatissima, non degna della soldataglia che vive intorno.
Ma nonostante questi difetti di partecipazione recitativa e di cadute situazionali (comunque brevi), abbiamo un film validissimo con una voglia precisa di richiesta di denuncia di un massacro da parte di chi l'ha compiuto anni indietro, una serie di scene emozionanti e alcune citazioni-iconografie di tutto rispetto. Non sfigura affatto l'immagine del film che i libri in fondo sono tesori, dato che quello che i Taviani ci hanno raccontato è un piccolo gioiello da conservare per cercare anche noi di capire quanto il passato sia importante, anche se una storia sembra tanto lontana da non poter più avere influenza su nulla.

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non solo quentin ma nel nome di quentin...quentin tarantino project
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