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Traiettorie (e derive) del documentario |
Petrus
 Reg.: 17 Nov 2003 Messaggi: 11216 Da: roma (RM)
| Inviato: 11-06-2006 16:16 |
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L'uscita dell'ultimo docu-film di Werner Herzog, Il diamante bianco, ennesimo passo di un ormai consolidato percorso di documentarista del regista tedesco (ricordiamo qui solo il recente Grizzly man e Kinski, il mio nemico più caro) si pone come buon imprinting per riflettere sul mondo del documentarismo cinematografico, che, grazie anche allo sforzo investitivo di produttori come Fandango e LuckyRed nel cinema, e Real Feltrinelli nell'home-video, sta conoscendo un periodo di inaspettata visibilità.
Apristrada di questo strano fermento è stato sicuramente il "caso" generato da Michael Moore con Bowling for Colombine, prima, e con Fahrenheit 9/11 poi.
Moore ha costruito un documentario che ha avuto successo in quanto non tale, in quanto talmente sbilanciato nell'affanno di dimostrare le proprie tesi, e non di "documentare" dei fatti, da sfiorare il limite con il film di fiction, creandosi addosso vere e proprie trame ed intricati intrecci che, resi sullo schermo, mostrano un'infima rigorosità documentale per privilegiare una forte carica emotiva.
E' curioso osservare come Herzog si ponga rispetto a questa tentata deriva del genere.
Assistendo ad uno dei suoi primi lavori, l'ormai affermato Reitz, autore della celebre serie di Heimat, criticò ferocemente il regista di origine slovena, denunciando che dopo le follie naziste alla Germania sarebbe occorso un cinema razionale, rigoroso. Herzog risalì sempre la corrente razionalista del cinema tedesco ( che, successivamente, si troverà a scontrarsi anche con Fassbinder), mettendo in scena sempre riferimenti spaesanti, utopie e sogni dall'improbabile realizzazione.
Cifra che è rimasta intatta anche nei suoi lavori non di narrativa, e che ne Il diamante bianco emerge con chiarezza.
Chiara quindi la contrapposizione con un modo di fare film che della limpidità del cinema non ha nulla, ennesimo segno di una ribellione fisiologica di chi i documentari li sa veramente fare, li ama. Basta dare un'occhiata a lavori come Il muro, splendido lavoro di Simon Bier, o La storia del cammello che piange, della coppia Falorni/Byambasuren, per capire di cosa stiamo parlando
Sarebbe interessante riportare la critica di Reitz all'oggi, di fronte al forzato razionalismo di Moore e al sognante realismo di Herzog, e chiedersi di che cosa il cinema abbia bisogno oggi.
pubblicato anche qui
_________________ "Verrà un giorno in cui spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate" |
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sandrix81
 Reg.: 20 Feb 2004 Messaggi: 29115 Da: San Giovanni Teatino (CH)
| Inviato: 11-06-2006 18:06 |
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Argomento molto interessante, avevo scritto qualcosa anch'io riguardo all'andazzo del genere documentario proprio un anno fa.
Una volta cinema e documentario erano uniti.
Di più, una volta cinema e documentario potevano essere meravigliosamente la stessa cosa; il documentario poteva davvero essere cinema, e grande cinema.
Ancora di più, volendo: il documentario, per come nasce, è uno studio approfondito sull'essenza del cinema, sulla ricostruzione della realtà. Basta fare pochi nomi, i soliti noti, Flaherty, Vertov, per ricordarsi di come un tempo il documentario fosse uno dei generi più ardui da affrontare e da analizzare; intorno al documentario si costruivano intere teorie sul cinema (o probabilmente è vero il viceversa, cioè che il risultato di complesse teorie era il documentario).
Vertov, in opposizione ad Ejzenstein, teorizzava la moltiplicazione di significanti ideologici possibile solo attraverso immagini reali (riprese dal kinoglaz), e La sesta parte del mondo è il perfetto esempio del suo montaggio accumulativo (ne ho già parlato qui).
C'è stato poi, per sparire purtroppo troppo presto, Jean Vigo. Gli obiettivi del progetto vigoliano di un "cinema sociale" si inseriscono direttamente sull'onda delle teorie vertoviane riguardo al ruolo dell'arte cinematografica nella rivoluzione, «poiché la sua teoria del cine-occhio combina in una felice sintesi "arte" e "tecnica", istanze conoscitive e prospettive ideologiche, "senso del reale" e "sensibilità estetica"» (Maurizio Grande). «Il kinokismo è l'arte di organizzare i movimenti necessari delle cose nello spazio, grazie all'utilizzazione di un insieme artistico-ritmico conforme alle proprietà del materiale e al ritmo interno di ogni cosa» (Dziga Vertov).
Per Vigo, il cinema deve immergersi a fondo nella società, nella trama del tessuto sociale, ma senza smarrire la propria identità. Dev'essere radicato nella realtà, ma non deve prescindere da sè stesso, neanche in nome di un "realismo", più o meno astratto, che risulterebbe comunque fine solo a sè stesso. Nessuno dei due aspetti (immersione nella realtà sociale, e mantenimento delle proprie forme) deve prevalere in maniera assoluta, «tentandone piuttosto una fusione originale ed efficace sul piano comunicativo» (M. Grande).
«Il documentarismo: definizione generica e perciò variamente contraddittoria a seconda degli utilizzi ideologici. In realtà almeno con due diversi documentarismi l'opera di Vertov fu, in tempi diversi, coordinata: l'uno di tipo oggettivistico, referenziale o, per dirla con un termine dell'epoca, "fattografico"; l'altro di tipo lirico, poetico e deformante. Non avendo mai praticato (...) nè l'uno nè l'altro tipo di documentarismo, Vertov fu considerato, nello stesso tempo, creatoe e traditore di entrambi i generi e il suo lavoro valutato in termini di massima e minima congruenza nei confronti dei due diversi modelli di cinema documentario» (Pietro Montani). Montani parla del teorico e cineasta sovietico, ma lo stesso discorso potrebbe tranquillamente essere riferito al Vigo di A propos de Nice (e di La natation).
Immergere il cinema nel tessuto sociale significa non solo svincolarsi dal baraccone di un cinema dominato da "leggi di mercanti da fiera", ma anche rinunciare agli eccessi scellerati del cosiddetto "cinema puro" avanguardistico.
Il cinema non deve tradire sè stesso, ma non deve neanche "tradire il reale", pretendendo di distribuire verità ideologiche immediatamente stampate sulla pellicola.
Per dirla con lo stesso Vigo, «andare verso il "cinema sociale" [è Vigo stesso che per primo pone tra virgolette la sue espressione] vuol dire essere d'accordo, pretendere, permettere, che il cinema dica qualcosa e svegli altre eco oltre ai rutti di quei "Signore e Signori!" che al cinema ci vanno per digerire».
Tanto altro andrebbe detto su Vigo, ma mi fermo qui. L'importante è che (spero) si sia capito che fare documentario, prima della Seconda Guerra Mondiale, significava in tutto e per tutto fare cinema e teorizzare sul cinema.
Al giorno d'oggi, il documentario è ben altra cosa.
Se ne accorgeva già Bazin nel 1946: «La guerra e la sua apocalisse sono state all'origine di una rivalorizzazione decisiva del reportage documentario. Questo perché, durante la guerra, i fatti hanno un'ampiezza e una gravità eccezionali. Costituiscono una messa in scena colossale [...]». Già con la Seconda Guerra Mondiale, dunque, il discorso di Vigo viene abbandonato. Il cinema tradisce la sua identità («si tratta di una messa in scena reale e che dura solo una volta») e la realtà (o, per meglio dire, il realismo) trascende in continuazione l'arte («La guerra [...] si lascia di molto dietro l'arte di immaginazione che pretendeva di ricostruirla.»).
Ma, a mio avviso, Bazin mostra una capacità sorprendente di saper guardare al futuro in un altro passo dello stesso articolo: «Ma il reportage di guerra corrisponde soprattutto a un altro bisogno che spiega la sua estrema generalizzazione. Il gusto dell'attualità, unito a quello del cinema, non è che la volontà di presenza dell'uomo moderno, il suo bisogno di assistere alla storia, in cui l'evoluzione politica, così come i mezzi tecnici di comunicazione e di distruzione, lo coinvolgono irrimediabilmente. [...] Viviamo sempre di più in un mondo spogliato dal cinema. Un mondo che tende a trasmutare la propria immagine.»
È il gusto dell'attualità che ha tracciato via via la strada del genere documentario. La volontà di riscattarsi "prendendo parte" a quanto avviene nel mondo sociale, da parte di una certa categoria di persone (che sono poi quelle che, in una società sempre più differenziata, scelgono di vedere il documentario piuttosto che - tanto per capirci - un western o un film di fantascienza) ha portato il documentario su una strada divergente rispetto al cinema, su un binario non più parallelo.
Basta vedere quanto accade oggi, dove questa tendenza culmina in cime ogni anno più elevate, e dove quella divergenza ha raggiunto livelli abissali.
Oggi, mentre il cinema postmoderno è riuscito in un'enorme auto-ri-valutazione attraverso una "svalutazione", uno svuotamento, uno slivellamento, dei suoi contenuti, dei suoi sensi, paradossalmente il documentario postmoderno è riuscito nell'impresa opposta: oggi, il documentario, attraverso una presunta auto-rivalutazione cultural-socio-etica dei suoi temi e dei suoi significanti, si è sempre più svalutato, raggiungendo livelli disastrosi.
Basta vedere quanto accade con film come Hotel Rwanda, dove gli spettatori escono dalla sala in lacrime e subito sono pronti a firmare petizioni o chissachè di Amnesty International riguardo al problema attuale di cui hanno appena assistito alla rappresentazione.
Hotel Rwanda non si pone (o meglio, non si propone) come documentario, ma fa del documentario la sua essenza. La guerra, e ancora di più la morte, vengono messe in scena per essere rappresentate come se fossero reali, come se a filmarle fosse il kinoglaz di Vertov; ma, come scriveva ancora Bazin in un altro articolo: «La rappresentazione della morte reale è anch'essa un'oscenità, non più morale come nell'amore, ma metafisica».
Hotel Rwanda è la messinscena di quella messinscena reale ed unica di cui scriveva Bazin nel 1946. E' la messa in scena del documentario. Riuscite a pensare a qualcosa di più anti-etico?
http://misticobabbeo.splinder.com/post/4995805
_________________ Quando mia madre, prima di andare a letto, mi porta un bicchiere di latte caldo, ho sempre paura che ci sia dentro una lampadina. |
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sandrix81
 Reg.: 20 Feb 2004 Messaggi: 29115 Da: San Giovanni Teatino (CH)
| Inviato: 11-06-2006 18:08 |
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Degli ultimi di Herzog ho visto solo L'ignoto spazio profondo, e non ha nulla a che vedere nè con Michael Moore nè con Hotel Rwanda.
Non vedo l'ora che in Cineteca passino The white diamond.
_________________ Quando mia madre, prima di andare a letto, mi porta un bicchiere di latte caldo, ho sempre paura che ci sia dentro una lampadina. |
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Petrus
 Reg.: 17 Nov 2003 Messaggi: 11216 Da: roma (RM)
| Inviato: 11-06-2006 18:14 |
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sandrix81
 Reg.: 20 Feb 2004 Messaggi: 29115 Da: San Giovanni Teatino (CH)
| Inviato: 11-06-2006 18:16 |
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quote: In data 2006-06-11 18:14, Petrus scrive:
ammazza che papiello...
cmq mi pare l'avessi già pubblicato, lo lessi tempo fa
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sì infatti mi hai anche lasciato un commento sul blog:
#2 10 Giugno 2005 - 23:10
ho letto solo le ultime due righe
ma non stavi parlando di Michael Moore vero?
Bonekamp
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Petrus
 Reg.: 17 Nov 2003 Messaggi: 11216 Da: roma (RM)
| Inviato: 11-06-2006 18:21 |
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philipcat
 Reg.: 08 Feb 2004 Messaggi: 1372 Da: Roma (RM)
| Inviato: 16-06-2006 23:49 |
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Vedi che sul web non si fanno solo incontri insipienti.
Petrus non mi delude mai, e stavolta Sandrix mi ha lasciata senza parole.
E allora mi viene a fagiolo una domanda: che ne pensi di Coal Face di Cavalcanti del 35? Me ne è fortunosamente e per pochi minuti capitata fra le mani una copia sufficientemente rovinata, che si inserisce legittimamente nel vostro discorso, a mio modo di vedere.
C'è il reale e la trasfigurazione del reale, complici Auden e Britten.
Undici minuti di rarefatto esoterismo.
_________________ Don't dream it, be it. |
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sandrix81
 Reg.: 20 Feb 2004 Messaggi: 29115 Da: San Giovanni Teatino (CH)
| Inviato: 17-06-2006 00:41 |
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argh!
mi infilo sul crapone il cappello da asino, anzi da mulo, e cerco di procurarmelo.
edit: mi sa che sarà dura...
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Non vorrei mai appartenere ad un forum che accettasse tra i suoi moderatori uno come me.
[ Questo messaggio è stato modificato da: sandrix81 il 17-06-2006 alle 00:42 ] |
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philipcat
 Reg.: 08 Feb 2004 Messaggi: 1372 Da: Roma (RM)
| Inviato: 17-06-2006 17:57 |
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Eh, col mulo sarà dura sì, ma quien sabe.
Asinissima anch'io comunque, nulla ne sapevo.
E' stata una piacevolissima scoperta, soprattutto dopo essermi inflitta un interminabile documentario di Istvan Gaal su Bela Bartok: dopo due ore ero pronta a confessare di aver rapito io la piccola Denise, pur di essere rilasciata.
Poi a sorpresa, degli amici soloni parrucconi mi hanno servito questo antesignano del documentario sociologico e mi sono "quasi" riconciliata con loro. Complice la breve durata, immagino.
_________________ Don't dream it, be it. |
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Schizobis
 Reg.: 13 Apr 2006 Messaggi: 1658 Da: Aosta (AO)
| Inviato: 28-08-2006 18:08 |
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A PROPOS DE NICE di Jean Vigo 1930 (l’esordio di un genio)
Invito tutti gli appassionati di cinema a recuperare questa piccola gemma di Jean Vigo che, trovandosi a Nizza per ragioni di salute (la tubercolosi richiedeva climi più temperati rispetto all’amata Parigi) decide di girare un documentario sulla città francese che diventa un piccolo manifesto sociale sulle differenze tra ricchi e poveri nella imperturbabilità di una natura angosciosamente uguale a sé stessa. Memore degli insegnamenti dell’”Uomo con la macchina da presa” Dziga Vertov (che ai tempi rivoluzionò il modo di riprendere la realtà, regalando una vita autonoma alla macchina da presa, tra inquadrature di sbieco e accelerazioni e decelerazioni improvvise) e aiutato dal fotografo Boris Kauffmann (fratello di Vertov), Jean Vigo monta le immagini in maniera ribelle in un ritmo serrato e appassionante. Vediamo alternarsi immagini di estrema ricchezza e di estrema povertà, immagini di gioia ma anche di profonda mestizia, di vitalità incosciente e di paciosa sonnolenza.
Ma anche nelle immagini che dovrebbero essere di pura felicità (il carnevale di Nizza, il gioco al Casinò, i balli dei ricchi e dei poveri), Jean Vigo inserisce una nota grottesca e sottilmente maligna, come se le immagini mostrate siano destinate a scomparire, a deteriorarsi, intaccate dalla malattia e dalla corruzione. L’occhio malato di Vigo scopre al di là delle nuvole e delle onde del mare, delle passeggiate invase dalle luce del sole e dei carri carnevaleschi, il lato oscuro della guerra, della distruzione, della deformazione corporea (il bambino con la faccia deturpata è una immagine che rimane impressa nella memoria, la vecchia consunta e quasi prosciugata), della rovina per debiti di gioco (i corpi ritirati dal tavolo verde come fiches), della morte (le immagini del cimitero che si alternano a quelle della parata militare).
E tra immagini di can can al rallentatore e dell’ Hotel Negresco inclinato dalla ripresa obliqua passa indifferente la bellezza delle statue, in una sorta di divina indifferenza dal nervoso e dispendioso brulicare di queste impazzite formiche umane.
Un modo diverso di rappresentare la realtà, una denuncia mascherata da poesia.
Resta il grande rimpianto per un uomo scomparso veramente troppo presto, nel 1934, a soli ventinove anni per le complicanze della tubercolosi.
_________________ True love waits... |
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