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E' morto Youssef Chahine |
quentin84
 Reg.: 20 Lug 2006 Messaggi: 3011 Da: agliana (PT)
| Inviato: 28-07-2008 12:27 |
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Si è spento a 82 anni il regista egiziano Gabriel Youssef Chahine, uno dei grandi nomi del cinema arabo ed egiziano in particolare.
Il suo film più noto forse è Il Destino del 1997, ispirato alla vita del filosofo arabo Averroè, un film contro ogni integralismo religioso.
E' stato definito il "Fellini egiziano"; di lui ho visto solo Il Destino e l'episodio del film collettivo sull'11 settembre, ma credo che il suo cinema coniugasse ironia e gusto dello spettacolo con una profonda sensibilità tematica, su L'Unità di oggi Alberto Crespi scrive che "mescolava il rigore etico di un Rossellini all'istinto spettacolare di un Monicelli".
Arabo cristiano, era nato nel 1926 ad Alessandria d'Egitto da genitori di origine siriana e aveva studiato cinema negli USA, a Pasadena...insomma la sua vita è stata un crocevia di molteplici influenze culturali.
Con i governi egiziani ha avuto rapporti difficili: negli anni '80 è finito in carcere per aver distribuito autonomamente un film censurato e credo abbia subito minacce anche da gruppi integralisti islamici.
Un grande cineasta che non c'è più.
[ Questo messaggio è stato modificato da: quentin84 il 28-07-2008 alle 16:33 ] |
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Valparaiso
 Reg.: 21 Lug 2007 Messaggi: 4447 Da: Napoli (es)
| Inviato: 07-08-2008 14:27 |
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Il ricordo di Youssef Chahine pubblicat dal Manifesto, a firma di Roberto Silvestri.
IL DESTINO DI CHAHINE
Mi piaceva perché suscitava entusiasmo nel pubblico, dal set e dal palco, e perché non è mai stato un regista «di centro». Diceva infatti: «Ho fatto i miei peggiori film non all'inizio della mia carriera, ma nel mezzo». E poi perché ci ha ipnotizzato con i suoi film seducenti a non farci mai ipnotizzare da nessuno. Neanche dalla paura della morte.
Dopo un primo attacco cardiaco aveva già raccontato la sua (quasi) morte nel film autobiografico La memoria, del 1982. Prefigurando come sarebbe stato impossibile per chiunque, e anche nell'aldilà, arrestare, tenere ferma quella forza della natura swinging, espressiva e vitalissima, chiamata Youssef Chahine. Un corpo danzante e canterino, una personalità «a cuore aperto», affamata di vita, amore, poesia e piaceri, che, come Jacques Demy o Vincente Minnelli, era capace di trovare leggiadramente l'anello di congiunzione tra coreografia e lotta di classe, divertimento e serietà, coraggio e «salto della morte». Basterebbe rivedere Silenzio... si gira (2001), omaggio al musical classico hollywoodiano per comprendere come l'«artista nasseriano tipico», la leggenda vivente degli arabi oppressi, fosse proprio «unico» e imprendibile. Anche nell'insegnare come incastrare e beffare la morte attraverso un labirinto complesso, quel Caos, che resterà eternamente affascinante, composto da più di una quarantina di lungometraggi, d'ogni genere e specie, realizzati dal 1950, due anni prima della cacciata di re Farouk, a oggi.
La rivoluzione interrotta
E che ci hanno raccontato la «ricchezza» e l'intollerabilità della povertà, il mondo operaio, le rivolte contadine, l'indipendenza tortuosa dal Regno Unito, lo «scandalo di Suez, l'appoggio popolare perenne a Nasser, tradito dai suoi fedeli (Il passero, 1973), il doppio shock per il «maschio arabo» dell'umiliazione militare (la guerra dei sei giorni) e politica (Saddam e Camp David), le contraddizioni della borghesia egiziana, la sua schizofrenia e follia, e quella «rivoluzione perennemente interrotta», senza rinchiudersi mai nella nicchia del narratore d'elite. Anzi, dopo il fiasco commerciale del suo primo capolavoro «neorealista». Stazione Centrale (1958), Chahine aveva voluto imporre una svolta ancora più popolare alla sua ricerca. E l'avrebbe replicata anche nel 1985, realizzando un kolossal storico, Adieu Bonaparte, che fece storcere il naso ai puristi del basso costo e anche al suo amico Jean-Marie Straub, ma tendeva a frenare il crollo dell'industria cinematografica locale. Era davvero speciale Chahine. E rispetto agli altri grandi cineasti dei tre mondi, più vicino al fraseggio popolare di Atif Güney e Sembene Ousmane che a quello, più difficile e oscuro, di Glauber Rocha, Ritwik Ghatak o Satyajit Ray. Forse perché era un poliglotta oltre che un intellettuale «trans-culturale» drastico. Forse perché proveniva da una di famiglia di minoranza cristiana. E non solo perché aveva la sensibilità di Mahfuz (conosceva bene e amava più che altro i bassifondi, e sapeva parlare ai proletari d'Egitto), ma anche perché aveva avuto la fortuna di nascere a Alessandria d'Egitto, ed era involontariamente l'erede spirituale di quel «quartetto» eccentrico, anche sessualmente, formato da Kostantinos Petrou Kavafis, Lawrence Durrell, E. M. Forster e da quell'«anarchico» di Giuseppe Ungaretti. Lì era nata anche l'industria del cinema egiziano. Grazie anche altri immigrati italiani, come italiano, e ebreo «in fuga» da Mussolini, oggi dimenticato da tutti, sarà il «romano» Togo Mizrahi, gigante del musical sul Nilo, un maestro di Chahine.
Postmodern dal basso
Il motto del regista alessandrino era: «ogni giorno io mi aspetto di piangere, ridere, ballare, cantare e...di finire in prigione... Ecco un film dovrebbe contenere tutte queste cose». Lo affermò molto prima di Quentin Tarantino, perché il postmodern viene dal basso Egitto. Piacevano i suoi melò buffi, i suoi film storici trattati alla Fellini, i suoi musical sui piani quinquennali, perfino all'Europa. Nel 1997 a Chahine fu assegnato il premio del cinquantenario del festival di Cannes, ma aveva vinto il premio speciale della giuria di Berlino, nel 1979, per Alessandria, perché?. Locarno gli dedicò, durante la direzione di Marco Muller una sontuosa retrospettiva. Ma i suoi film sono ancora pressoché sconosciuti al grande pubblico italiano, perfino dalla Rai prodiana, derubato di tutte le cose belle da vedere, se non in orari televisivi da rapinatori.
Invece il medio Oriente e tutta l'Africa lo adorava. Quando saliva Chahine sul palco del Colisee di Tunisi, il cuore del festival di Cartagine, dove ogni due anni si celebra a ottobre il cinema panafricano e panarabo, l'applauso diventava boato commuovente di uomini e di donne senza velo, tutti in piedi esultanti. Youssef Chahine, osannato dai colleghi, dalle maschere e dai proiezionisti della sala, prima ancora che dall'agiato pubblico «neodesturiano», non era solo il regista egiziano più cosmopolita, libero e profondo, il filmaker radicale e «illuminista» corteggiato dai maggiori festival del mondo, il fondatore e istigatore della «nouvelle vague» maghrebina e mashrequina (l'occidente e l'oriente arabo), l'artista che aveva sconvolto, dall'interno, gli stereotipi della Hollywood sul Nilo, traghettandola dall'incantata perfezione glaciale dell'arabesque fino alla responsabilità spirituale, etica e politica delle immagini - certo, «religiosamente» pericolose, ma solo per certe caste sacerdotali. Chahine era quel che si chiama lo «spirito libertario di quel mondo». E gli arabi e le arabe solo per la superficialità dei media occidentali, e per gli effetti devastanti delle politiche della globalizzazione, sono istigati a essere oscurantisti, retrogradi, medievali, dogmatici, maschilisti...
La sinistra nell'Islam
Il cineasta che più ha compreso lo slogan femminista «il personale è politico» ha ben rappresentato i sogni, le vittorie e i fallimenti di quelle classi medie progressive del Medio Oriente che si sono sempre collocate nell'ambito di una tradizione di sinistra, socialista o nazionalista. È parte di quella storia centenaria, già ottocentesca, di una sinistra che vive nell'Islam pur essendo essenzialmente laica. E proprio negli anni 50 del secolo scorso, parallelamente al tentativo populista di Mossadeq in Iran e all'utopia panaraba nasseriana erano nelle moschee che si formavano i quadri rivoluzionari, comunisti e della sinistra ancora più estrema, che avrebbero fatto il sessantotto in medio Oriente e che poi furono sterminati con zelo speciale da Usa, Europa, regimi dispotici e wahabiti sauditi riuniti (distruttori doc dei tessuti sociali pericolosi) che riempirono d'oro le casse dei reazionari fascistoidi «islamisti», dai Fratelli Musulmani a Al Qaeda, per fargli fare lavori sporchi. Proprio sulla «questione democratica», e sulla separazione tra stato e chiesa, Chahine si è battuto con più forza, sia contro la «umma» che contro Hosni Mubarack (finendo anche in galera e sfiorando una dura condanna per offesa alla religione dopo l'anteprima shock del suo film L'emigrante, nel 1994), anche se non è mai mancata da parte sua la presa di distanza dai limiti dalla democrazia americana (che conosceva bene, fin da studente del Pasadena Playhouse). La pensava proprio come Toni Negri, quando scrive in Goodbye Mr Socialism: «dal punto di vista della riproduzione delle elites, della distribuzione della ricchezza e della qualità della vita, ho molti dubbi che, nella situazione attuale, possa essere presentata come un grande modello. Questo evidentemente non significa che i regimi religiosi e le teocrazie siano meno ributtanti».
Youssef Chahine, infatti, ha sempre messo nella giusta posizione la macchina da presa, rispetto a una inquadratura da realizzare, a una costituzione d'oggetto e di spazi da far «muovere». La posizione preferita di una inquadratura è infatti troppo spesso inestetica, inclinata com'è dalla parte del potere e delle classi dominanti... Mettersi, invece, sempre dalla parte del popolo che lotta per gli interessi di tutti, e non di una parte, allarga il nostro spazio visuale e vitale. Per questo chi fabbrica immagini e non parole d'ordine è mal visto dai potenti e dai loro servi. Lui invece scelse il punto di vista indipendente, cioè parzialmente imparziale, dei contadini contro i latifondisti che non mollano la loro rendita (La terra, del 1969); dei palestinesi, anche contro l'Olp e Hamas fondamentalisti (L'emigrato, 1994, ispirato alla vita del patriarca biblico Giosuè); delle femministe e degli omosessuali contro lo sciovinismo maschilista di destra e di sinistra (tutti i suoi film, a cominciare da Djamila l'algerina, 1958, che è già una riflessione critica sull'Fnl) e degli artisti perseguitati in tutti gli stati arabi dalla censura, dalla burocrazia e dalle diavolerie fondamentaliste (nel Destino del 1997 Chahine ricorda come il motorino d'avviamento del processo illuminista in Occidente debba essere retrodatato al medioevo islamico-andaluso, tra i filosofi sciiti come Averroe' che rielaborarono nel XIII secolo la grande cultura greca utilizzandola come clave contro i fondamentalismi religiosi, primi tra tutti quello imperialista cristiano).
Un umorismo devastante
Youssef Chahine, il marxista alessandrino festivo, che ci spiegò come solo chi è cosmopolita è patriota, perché una comunità è sana se sa confondersi con le altre, sapeva comunicare poi in modo speciale, per la sua sincerità e per il suo umorismo devastante, con il grande pubblico, e a tutti i livelli, intellettuale, emozionale, sentimentale. In questo è stato un precursore della «nuova sinistra», un rivoluzionario moderno, anti dogmatico e antifondamentalista. Perché aveva messo al centro del suo processo artistico se stesso, raccontava sempre in prima persona singolare maschile (mai per conto di una fazione del partito unico o di una ideologia), perché era un perenne esploratore del mondo, macchina in soggettiva e via, proprio come i suoi alter ego dello schermo (da quando, ex attore, preferì ritirarsi dietro la cinepresa) a cominciare dalla sua prima grande scoperta, Omar Sharif (Guerra nella valle, 1953; Il demonio nel deserto, 1954; Acque nere, '56), e poi Dalida, Chereau, Yousra. E questo anche prima del suo «quartetto di Alessandria», iniziato nel 1978 con Alessandria...perché? Proseguito in La memoria (1982) e terminato con Alessandria ancora e per sempre (1990) e Alessandria...New York (2004), e spiegato in termini gramsciani puri: «Racconto di una Alessandria dove c'era una straordinaria intelligenza di vivere tra differenti etnie e religioni. Come abbiamo potuto perderla? Abbiamo vissuto questa intelligenza. A chi giovava distruggerla? Chi è che collabora a farci subire questa tragedia? Quali sono le classi che dominano e quelle che dirigono?».
Erede della grande tradizione del realismo sociale dei Tafiq Salah e Salah Abu Seif, nei suoi film, e anche nel colossal semi apologetico dedicato a Gamal Abdel Nasser, Saladino (1963), Chahine metteva nei suoi film, piccoli o colossali, quella grande perizia artigianale appresa negli studi fin da quando aveva 24 anni.
E ha combattuto molto per i suoi principi rivoluzionari, cioè di piena democrazia, fino alla censura, al carcere, all'autoesilio (in Libano e in Francia), alle incomprensioni (gli algerini del Palazzo odiarono Djamila, ma gli finanziarono alcuni film invisi al Cairo), alla persecuzione, alle minacce di morte. Perché, erede di una potente industria dello spettacolo, con 70 anni di studio system alle spalle, divi, cantanti, danzatrici del ventre e caratteristi adorati, i generi, dal melo al musical, dall'epico al noir, di qualità visuale e artigianale altissima, aveva saputo reinterpretarla «all'estrema sinistra» e piegarla, ancor più modernamente di Nasser, alla sensibilità panafricana. Da Rabat a Damasco, da Città del Capo a Ouagadougou, Chahine voleva dire l'amore per il cittadino arabo e africano, fiero e degno di rispetto. Quello che il 68 aveva voluto inventare.
Il «sessantotto arabo», notava Michel Foucault che insegnava a Tunisi proprio in quei frangenti, fu identico nello scandalo, nella potenza e nell'entusiasmo delle donne, degli studenti e dei proletari che combatterono per la loro soggettività desiderante e contro regimi autoritari, ma fu molto più radicale, coraggioso e represso di quello europeo. Sul corpo del neo-trotskista Nouri Bouzid, futuro regista e uno dei più sensibili eredi di Chahine, i torturatori di Burghiba lasciarono segni tutto oggi indelebili. Ma segni ancora più indelebili li lasceranno i grandi cineasti della nouvelle vague araba, i cento, mille allievi di Chahine, diretti come Nasrallah, o indiretti come Khleifi, Mahmoud Ben Mahmoud, Malas, el Manouni, che hanno imparato come terrorizzare il potere dispotico. Una piroetta, una risata, un gioco di parole, una canzone, una «tensione dionisiaca» che ammazzerà sul colpo, per lo scandalo, qualunque fanatico dei testi sacri. |
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Valparaiso
 Reg.: 21 Lug 2007 Messaggi: 4447 Da: Napoli (es)
| Inviato: 07-08-2008 14:28 |
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BIOGRAFIA
Quell'esistenza anti dogmatica
Youssef Chahine è morto a 82 anni, dopo essere stato per settimane in coma a causa di una emorragia cerebrale. Nato nel 1926 ad Alessandria d'Egitto, figlio di un avvocato siriano, di famiglia cristiana, Chahine dopo gli studi di recitazione e regia a Los Angeles, tornò in patria per debuttare nella regia nel 1950 con «Papà Amin». Il 1954 è l'anno di «Lotta nella valle» (con Omar Sharif), contadini contro latifondisti. Seguirono poi «Stazione centrale» e il biopic «Jamila», che fiancheggiava il movimento di liberazione nazionale algerino. Nel 1978 vinse l'Orso d'Argento con «Alessandria...Perché?», primo capitolo di un «quartetto», sviluppato nel 1982 e nel 1990, conclusosi nel 2004 («Alessandria, New York»). Il 1997 è l'anno de «Il destino», criticato per la sua visione del terrorismo. Ma a Cannes (dove era stato il primo cineasta egiziano a approdare, negli anni 50) venne insignito del premio alla carriera. L'ultimo suo film, presentato al Lido, è stato «Caos». |
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TesPatton
 Reg.: 09 Giu 2004 Messaggi: 7745 Da: Pn (PN)
| Inviato: 07-08-2008 18:37 |
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Allahyerhamo
_________________ Spegni la candela, non voglio vedere il colore dei miei pensieri. |
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AlZayd
 Reg.: 30 Ott 2003 Messaggi: 8160 Da: roma (RM)
| Inviato: 10-08-2008 19:20 |
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Di questo regista conosco solo Il Destino. Non un film perfetto, ma mi era piaciuto per l'originalità dell'insolito del soggetto trattato e per alcuni momenti di cinema della "visione" davvero alti.
_________________ "Bisogna prendere il veleno come veleno e il cinema come cinema" - L. Buñuel |
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