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Autore John Cassavetes
AlZayd

Reg.: 30 Ott 2003
Messaggi: 8160
Da: roma (RM)
Inviato: 26-02-2007 03:12  
Si ipotizzava con Marien di aprire un topic su Cassavetes e d'intorni. Passo alle vie di fatto ed apro le danze postando quattro riciclate impressioni scritte a suo tempo, a caldo e molto "de core", su Ombre.

Sinossi: Hugh, Leila e Ben sono tre fratelli afroamericani di pelle chiara che vivono a Manhattan. Hugh, il più grande, è un cantante di nightclub in declino che vede uno spiraglio di felicità quando gli viene proposta una nuova scrittura. Leila frequenta i circoli degli esistenzialisti ma dopo un sfortunata avventura accetta la corte di un ragazzo della sua razza. Ben, il più giovane dei tre, tenta di superare il disagio di essere di colore frequentando un gruppo di ragazzi bianchi che passano le giornate tra flirt, risse e gioco d’azzardo finché decide di condurre una vita più tranquilla.

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Opera sperimentale girata nel 1960 da un regista indipendente, insieme ad una troupe di 4 persone, con un budget irrisorio, in 16 mm, priva di costruzione scenica, basata su un’esile script canovaccio, sui criteri realizzativi del “cinema plurale”, improvvisato sul piano registico e interpretativo, forte delle esperienze che John Cassavetes e il suo cast tecnico e attoriale maturarono all’interno dell’Actor’ Workshop fondato dallo stesso regista.

Tra Nouvelle Vague e Free cinema.

Sorprende la spontanea, elegante e nervosa introspezione, la libertà di movimento – e il carattere improvvisativo - della camera a spalla, sorta di elettrica appendice del corpo/mente/viscere di Cassavetes, che sa come non farsi notare, che sa come non apparire (hollywoodianamente) ingombrante, mentre scruta/ritaglia/inquadra e trasfigura - attraverso piccole scene/storie di ordinaria vita quotidiana, prive di retoricismi, enfasi e scontate oleografie, mai chiuso nel messaggio “politico” che spesso penalizza il film a tesi - la realtà spirituale ma anche fisica di un'America in jazz, blues, “beat” (quando non si era ancora del tutto spenta l'eco delle più "confortanti" note in blue gershwiniane). La quale, pur vivendo una stagione non meno dolente, cupa e problematica rispetto all’oggi - le avversioni razziali erano allora assai più feroci e letali -, appariva tuttavia entusiasticamente immaginifica, creativa, "impegnata", ottimista, speranzosa, in “progress”: Black is beautiful! - come la loro grande musica - gridavano gli afro americani che iniziavano a prendere coscienza di sè, del proprio ruolo artistico-culturale in seno a quell’America, matrigna crudele e irriconoscente, di cui, fin nei primi anni del secolo trascorso, finirono, “con la loro tristezza”, per rappresentarne "l'asse spirituale" - (anche) secondo F.G. Lorca che affermò ciò in anni non sospetti e in maniera quasi inedita.
Amo questo primo lungometraggio "sperimentale" (non privo pertanto di alcune ingenuità più che perdonabili), intimista, delle sfumature, del “momentismo”, realizzato da un giovane cineasta innovatore che non rispetta regole e tecniche costituite, che mira alle sue, più interessato al linguaggio, a un'estetica personale, immediata, originale, apparentemente grezza e naif, in realtà risultato di un solido lavoro di scavo introspettivo – nell’ “improvvisazione collettiva”, molto affine alle esperienze mingusiane del Jazz Workshop -, in un progetto rigoroso ed essenziale, consapevole e poetico, che infine scansa i luoghi comuni i clichè del naturalismo pre-fabbricato. Il film ha dunque, dicevo, lo stesso carattere delle improvvisate note in jazz di Shafi Hadi e di Charlie Mingus: aggressive, malinconiche, estranianti, “re(ecc)citanti”.
Mi affascina Ombre per il suo denso e drammatico B. & W., "colore" di quelle giovani anime nere e bianche, unite e contrapposte, ritratti nelle loro solitudini “sociali” ed esistenziali, nelle scanzonate, inquiete e inconcludenti scorribande notturne, in giro per i locali della città, in compagnia di aspettative, frustrazioni, disorientamenti, con il blues nel cuore e nella mente; per le magnifiche inquadrature delle umane figure, di una New York al neon terribile e trasognata, trasfigurata, splendidamente fotografata, con squarci di dolorosa luce diurna; per come "gioca", amoreggia, con il corpo/volto, specchi di un’anima, della bella Lelia ("esotica", come Maggie Cheung nel recente Clean di Oliver Assayas - suggestioni del grande cinema ricorrenti nel cinema attuale -, altro film musicale, bellissimo: ancora “cinemusica”).
Amo Ombre per la musica, che non è mai distratto "fuori campo", mera "colonna sonora", che si fonde con le voci dei protagonisti, con i silenzi, con i rumori della città e degli stati d'animo, con i discreti bagliori lirici che il regista riesce a condensare in ogni inquadratura: negli intensi primi e primissimi piani dei volti; nei campi lunghi che riprendono scorci urbani, strade animate da tante solitudini, nelle “promenade” senza tempo/meta/scopo, nei momenti “patetici” contrappuntati dai tamburi africani, dalle lancinanti note improvvisate al sax da Shafi Hadi.
Geniale la scena del pestaggio filmata nel sordido vicolo notturno: i pugni colpiscono a più riprese l’obiettivo, in una sorta di soggettiva in cui ad essere colpito è lo spettatore. Artificio tecnico-espressivo semplice ed efficace, immediato nel suo intento “illusorio”, laddove non si fa ricorso a chissà quali roboanti tecnicismi e complicati effetti speciali fini a se stessi. E’ durante tali riprese che entra, insinuante, in scena il basso di Charlie Mingus, con le sue poderose e catartiche corde che vibrano dilaniando gli spazi, elevando, dilatando il tono e il ritmo filmico. Sequenze che anticipano di poco il finale, quando Ben riprende il suo viaggio notturno per le strade della città estraniante e vuota, eppure così piena d’insegne, di locali e di vetrine illuminate che riverberano lirici bagliori sull’asfalto e sul selciato dei marciapiedi. Luci abbaglianti, invisibili ”ombre” che si addensano nelle note di Shafi Hadi, come un manto protettivo, com-passionevole che si posa sulla sagoma in “ombra” del “perdente”, autentico antieroe di un’invisibile guerra metropolitana, avviato verso un destino che non esiste se non in quell’attimo di rassegnata poesia. Poesia del dolore, del grido sordo, della speranza riposta nel lungo cammino verso l’accettazione e la dignità che è stato dato compiere al popolo dei neri e, aldilà delle referenze razziali, a tutte le generazioni, bianche e nere, “ribelli” ed insieme disorientate dal male di vivere.

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”Self portrait in three colors è il titolo che Mingus – “negro” di pelle chiara che nella delirante autobiografia Beneath the underdog si è raccontato schizofrenicamente come "un uomo in tre" - ha dato alla suite ricavata dal commento al film, invero sconfessato a posteriori. E sono tre le sfumature della pelle dei fratelli di Ombre, digradanti da quella nerissima di Hugh a quella piuttosto chiara di Ben a quella quasi bianca di Lelia: le tre maschere di un paradosso scenico che li vuole - come in una rediviva Commedia dell'Arte - coinvolti in un indifferenziato scambio delle parti con gli amici, bianchi e neri, fino all'agnizione finale." Cit. Sergio Arecco: Cassavetes – ed. Il Castoro Cinema.

già pubblicato qui

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"Bisogna prendere il veleno come veleno e il cinema come cinema" - L. Buñuel

[ Questo messaggio è stato modificato da: AlZayd il 26-02-2007 alle 03:19 ]

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Marienbad

Reg.: 17 Set 2004
Messaggi: 15905
Da: Genova (GE)
Inviato: 26-02-2007 21:10  
Caspita, quello che hai scritto è davvero ottimo, mi piacerebbe aggiungere qualcosa...
Ma a questo punto credo che bisognerà riprendere la prossima volta, perchè mi tocca ripartire.
Spero nel frattempo intervengano anche altri utenti.
Mannaggia
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Inland Empire non l'ho visto e non mi piace

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AlZayd

Reg.: 30 Ott 2003
Messaggi: 8160
Da: roma (RM)
Inviato: 27-02-2007 04:34  
quote:
In data 2007-02-26 21:10, Marienbad scrive:
Caspita, quello che hai scritto è davvero ottimo, mi piacerebbe aggiungere qualcosa...
Ma a questo punto credo che bisognerà riprendere la prossima volta, perchè mi tocca ripartire.
Spero nel frattempo intervengano anche altri utenti.
Mannaggia




Grazie Marien, si scrive quando si può, mica scappa il topic. Allo stato, temo che al tuo ritorno non troverai il pienone... Questo cinema tira poco.
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"Bisogna prendere il veleno come veleno e il cinema come cinema" - L. Buñuel

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Chenoa

Reg.: 16 Mag 2004
Messaggi: 11104
Da: Vittorio Veneto (TV)
Inviato: 27-02-2007 08:16  
Di Cassavetes ho visto solo Faces.
Dirò poco e niente, non me ne intendo molto.
Comunque. L'impressione che ho avuto è che la regia fosse quasi documentaristica, snaturata di qualsiasi teatralità o perfezione, mettiamola così.
Idem per quanto riguarda la recitazione degli attori, estremamente realistica, sembrava che l'opera fosse un insieme di attimi rubati alla vita di persone realmente esistenti.

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AlZayd

Reg.: 30 Ott 2003
Messaggi: 8160
Da: roma (RM)
Inviato: 01-03-2007 03:56  
quote:
In data 2007-02-27 08:16, Chenoa scrive:

... la recitazione degli attori, estremamente realistica, sembrava che l'opera fosse un insieme di attimi rubati alla vita di persone realmente esistenti.



Non importa se uno se ne intende o meno, l'importante è terminare una visione filmica portandosi dietro questa bella suggestione.



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