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Autore OTAR IOSSELIANI
Cronenberg

Reg.: 02 Dic 2003
Messaggi: 2781
Da: GENOVA (GE)
Inviato: 11-01-2007 16:00  
La panoramica come strategia tecnica congeniale a rappresentare incontri casuali, ritrovi al tavolino di un bistrot per cantare tutti insieme e depressioni sociali tristemente note come guerre. Queste le fondamenta immutabili e imprescindibili del cinema di Otar Iosseliani, cineasta georgiano più famoso in Europa e pluripremiato nei maggiori festival del continente, che lamenta, nel paradosso, una carente conoscenza ed un bislacco apprezzamento da parte del pubblico. Ancora all’oscuro, giudicando il trattamento distributivo ricevuto dai suoi film, della generosa produzione cinematografica che gli ha riservato fin dai primi anni del 1960, periodo in cui versavano in lavorazione alcuni dei suoi mediometraggi più famosi come Storia di cose (1960) e Aprile (1962). Diversamente dalla successiva metà degli anni sessanta, quando preferì curare la realizzazione di un cortometraggio La ghisa (1964) e di una produzione imperniata satiricamente sull’arrivismo lavorativo La caduta delle foglie (1966), tema poi ribattuto anche nel recente Giardini in autunno (2006). Da qui in poi si compie il cosiddetto salto di qualità per Iosseliani, con l’incominciare di una ritmica e gremita filmografia costituita da lungometraggi che poco a poco conquistano le passerelle delle migliori vetrine di cinema europee. E proprio durante la Mostra di Venezia, nel 1973, Otar Iosseliani esordisce sull’albo d’oro lidense, aggiudicandosi il Gran Premio con il suo C’era una volta un merlo canterino, che sarà soltanto primo di una lunga serie di omaggi a lui rivolti dalla giuria internazionale. Un primo significativo esempio di quella che è l’attenzione dedicata alla sua concezione del mondo e dell’interindividualità, un po’ elitaria certo, ma pur sempre considerazione meritatissima. Infatti il suo primo lungometraggio di fiction racconta una semplice storia sul rapporto dell’uomo con l’altro sesso, le insidie e le sue ovvie difficoltà, con la solita verve indisciplinata di un attore di teatro che arriva abitualmente in ritardo alle poche battute che deve recitare sul palco.
Il ruolo di protagonista ad uno scapestrato quindi, che rispecchia con coerenza la personalità poliedrica e irregolare del cineasta georgiano naturalizzato francese, e che trova proprio ne I favoriti della luna (1984), undici anni dopo, un riscontro corale dato dalle diverse campane umane che rintoccano lungo tutto il film. I favoriti della luna sono quei personaggi, ladri, barboni o saltimbanchi, che compaiono e scompaiono a distanza di poche decine di metri di pellicola, e che vengono avvicinati ora da un ritratto femminile dell’Ottocento, ora da un servizio di Sèvres.
Il fato, ma più propriamente il caso, permette alla società di fungere da grosso calderone al cui interno zigzaganti flatus vocis s’incontrano e scontrano come impazziti, realizzando così la sua stessa natura al contempo unificatrice e diseguale. Anche questa pellicola avvince la platea veneziana facendo proprio il secondo Gran Premio della Giuria di Iosseliani, al termine della quarantunesima edizione di Mostra del Cinema.
Otar Iosseliani si è ormai fatto un nome, il regista degli oggetti che permangono nel tempo e nell’eternità come simboli del passaggio dell’uomo, rivoluziona in parte la concezione di finitudine che il cinema usa e getta continua a ribadire. Tanto che il lavoro successivo sarà frutto di una virata tutta antropologica, che manterrà però come soggetti l’uomo e la donna. Un incendio visto da lontano (1989) è quello che i turisti scorgono dal loro pullman, mentre transitano nei paraggi di un villaggio in fiamme nel profondo Senegal. Iosseliani, un po’ come De Heer per 10 Canoe, sceglie di rinunciare all’agevolezza di girare in un paese modernizzato il suo nuovo film, preferendo fare ritorno alle origini tribali e comunitarie degli abitanti di un gruppo di capanne a schiera, in cui sull’uomo hanno esclusivo potere decisionale le donne. Tranne che sull’uomo bianco, colui che riversa prepotentemente questa sprecata forza lavoro in città, bruciandogli tutto quello che hanno. Profondo senso di malinconia e degrado morale pervadono i toni e le tinte di questa pellicola, nuovamente vincitrice a Venezia di un Premio della Giuria, degna antenata di quello che è a tutt’oggi il film più rappresentativo di Iosseliani, nonché il suo apice, ovvero Caccia alle farfalle (1992).
In allegoria sta al sogno che non abbiamo più saputo volere, catturare, come lieto e poetico era l’inseguimento sui prati di questi sfuggevoli insetti variopinti.
Ne risulta quindi uno spaccato lieve, etereo, pressoché metafisico, che racchiude nella sua provvistissima “retina” filmica interrogativi trascendenti riguardanti la vita, la morte e il loro stretto connubio, oltre che il passaggio di proprietà del mondo, di generazione in generazione, e le sue logiche incognite. Un tocco così solare, pacato e indulgente non aveva mai bussato prima alla porta del cinema, e a riconoscenza di ciò la Mostra di Venezia assegna l’ennesimo Gran Premio della Giuria all’immediatamente successivo lavoro di Iosseliani Briganti (1996). Un progetto ambizioso e probabilmente mal gestito dal regista e peggio compreso dal suo pubblico, che rintraccia ridondanza e confusione in un tentativo di confronto fra tre diverse epoche storiche, come quella medioevale, comunista e contemporanea.
Tutte quante connotate dalla presenza di guerre, sotterfugi politici e sentimentali che vanno a completo sfascio dell’umanità. Dopo questo mezzo passo falso il regista riacquista consensi grazie all’uscita di Addio terraferma (1999), pellicola che non si propone altro che la rappresentazione della preoccupazione di chi è povero a mostrarsi ricco e viceversa. Unica premessa rappresentata in maniera vivace ed ironica, addolcita dalla presenza degli elementi caratteristici del cinema di Iosseliani, dall’immancabile fenicottero al coro conviviale di amici clochard. Dopodichè l’Orso d’Argento alla miglior regia premia Lunedì mattina (2001), pellicola incentrata sul tema del viaggio e dell’evasione dalla vita pendolare e incolore di provincia. Sorta d’inseguimento utopico di una “stella che non c’è”, precede la recente riconferma della smisurata sapienza di Iosseliani, che con Giardini in autunno affronta ancora una volta il tema del piacere condotto dall’amicizia, dalla spontaneità e dalla condivisione del tempo, rispetto al suo sperperamento in luoghi che costringono l’uomo a rivestire ruoli burocratici e precostituiti, in una parola: soli. Segno che la libertà ideologica ma soprattutto artistica di Otar Iosseliani è tuttora incondizionatamente fervida, contrariamente a quella confinata in riserve espressive, tuttaltro che benefiche, di molti suoi colleghi.
Già pubblicato qui
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La ragione è la sola cosa che ci fa uomini e ci distingue dalle bestie

René Descartes

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AlZayd

Reg.: 30 Ott 2003
Messaggi: 8160
Da: roma (RM)
Inviato: 16-01-2007 02:14  

Uno scritto così non può passare inosservato e restare senza commenti. Ora, in preda all'emozione, posso soltanto dire: magnifico! Acume critico, poetico, grande letteratura.

[ Questo messaggio è stato modificato da: AlZayd il 16-01-2007 alle 02:15 ]

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