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Autore Sergio Leone: sogno, mito, spettacolo
alex82

Reg.: 19 Giu 2004
Messaggi: 1068
Da: Volpago del Montello (TV)
Inviato: 16-03-2005 10:09  
Un’esplosione fuori campo, sguardi attenti, pelle rugosa e cotta dal sole in primissimo piano, occhi glaciali e splendenti. Il fumo riempie la scena, ma presto svela una sagoma scura in campo lungo, lenta, sicura, sempre più vicina. Ancora volti vigili e sudati. Il vento spazza via la nebbia ed ecco la figura misteriosa, solidamente eretta, testa leggermente piegata da una parte, occhi chiusi a fessura dritti sul nemico. L’eroe inizia a camminare in avanti, lentamente e solennemente, ammirato dal basso. Con nobile sicurezza presto riempie l’intera inquadratura, trabocca e giunge in posizione, facendoci ammirare i suoi stivali impolverati. Questi ultimi quasi sembrano avere una voce e un’espressione, dialogare con quelli neri e minacciosi del nemico, sempre ripresi da terra, da dietro, poi di lato, punta e sperone. Per ora sono solo un paio, che con lentezza e fermezza si allontano, scoprendo gradualmente la figura intera di spalle. Presto entrano in campo altre quattro figure, tutte di spalle, che subito si voltano e si posizionano sicure, diritte, qualcuna sprezzante, qualcun’altra tesa. I nemici sono cinque, riempiono l’inquadratura, di scorcio sono tutto rivolti verso l’eroe solitario, il capo è armato di fucile. C’è un solo spettatore, poi di nuovo maschere immobili, illuminate di taglio, in attesa. Ora tocca al nemico: mezzo busto a lato dell’inquadratura, imbraccia lentamente l’arma, piega lievemente la testa, chiude un occhio e prende attentamente la mira: “Gringo!” “Sei morto”…

Il preludio al duello finale tra Joe (Eastwood), lo straniero senza nome, e Ramon (Volontè), capo della famiglia Roho in Per Un Pugno di Dollari è uno dei tanti mirabili esempi di come Sergio Leone sia riuscito a rileggere il western classico e a creare uno stile completamente nuovo, una delle componenti fondamentali del western all’italiana. L’altra è certamente il contenuto, ovvero la “materia prima” e i “modelli” di cui sono fatti i mondi e le storie nei western di Leone.

Il regista romano, prima di arrivare a firmare un film solo suo, ebbe modo, in parte perché quella era la prassi, in parte per volontà di ritardare il debutto, di costruirsi una ricchissima esperienza di assistente, aiuto regista e regista di seconde unità in oltre una cinquantina di pellicole. Come si soleva dire nel gergo, fece il “negro” di nomi importanti del cinema degli anni ’50 come De Sica, Camerini e Bonnard , ma quelle che furono forse le esperienze più formative vennero dagli States, in un periodo in cui molte megaproduzioni americane venivano realizzate a Cinecittà: si tratta dei famosi polpettoni mitologici come Quo Vadis? di Le Roy, Elena di Troia di Wise e il celebre Ben Hur di Wylder. Nel frattempo la risposta nostrana ai suddetti film in Italia fu la nascita dei pepla, i “sandaloni” mitologici dal plot tanto semplice e divertente (per il gusto di allora), quanto meccanicamente reiterato con risibili deroghe, produzione dopo produzione: storia d’avventura con protagonista un bellimbusto muscoloso, condita di facili sentimentalismi, non coerente con la Storia e la Mitologia, narrata spesso attuando un pastiche di stili. Dopo Gli Ultimi Giorni di Pompei (1959), iniziato da Bonnard ma quasi interamente girato dal Nostro, fu proprio un peplum il primo lungometraggio firmato da Leone.
Ne Il Colosso di Rodi (1960) Leone fa tesoro dell’esperienza sul set di Ben Hur e sulla lunga lavorazione della scena delle bighe per girare delle buone sequenze d’azione corale e inserirle in un intrigo politico dal sapore hitchcockiano non privo di difetti e debolezze. Il referente, per stessa ammissione del regista, è facilmente individuabile in Intrigo Internazionale (1959), da cui egli s’ispirò, oltre che per la trama (mediterranea storia d’amore, stravolta da ineluttabili eventi politici e naturali, coronata in extremis da un happy ending obbligatorio), anche per la scena di lotta sulle braccia del colosso, e il risultato finale, al di là della sostanziale inferiorità rispetto ai modelli hollywoodiani, è una discreta prova di capacità di utilizzo efficace dei topoi del genere e di “gestione” della spettacolarità.
Ma a Leone il “sandalone” in realtà non è mai piaciuto e per di più all’inizio degli anni ’60 era un genere ormai morente. C’era bisogno di guardarsi attorno e, cosa buffa, il Nostro andò a cozzare proprio contro un altro genere che da qualche anno a quella parte languiva molto: il western.

Checché se ne pensi, i primi film western prodotti in Italia non furono quelli di Leone. Qualche esempio: La Vampira Indiana (1913), diretto, ironia della sorte, dal padre Roberto Roberti e interpretato dalla madre Bice Waleran, Una Signora dell’Ovest (1942), Il Fanciullo del West (1943), In Nome della Legge (1949). A onor del vero si trattava di western ben diversi da quelli americani, spesso contaminati da tematiche e scenari storici tutti italici. Nel ’48, inoltre, nasce in Italia il più famoso fumetto western mai pubblicato, Tex, che contribuì notevolmente ad arricchire la poetica e l’estetica del genere. Ma i maggiori referenti, anche per Leone, sono ovviamente quelli d’oltreoceano, sotto ogni aspetto, da quello tematico a quello del verismo di alcuni particolari: Sfida Infernale, Vera Cruz, I Magnifici Sette, Shane, Sfida nella Città Morta, Mezzogiorno di Fuoco sono i titoli più significativi. Il western classico di Ford, Houston e Vidor raggiunge l’apice espressivo e di successo negli anni ’50, ma a partire dal decennio successivo il genere perde popolarità, in parte anche “tradito” dai nuovi, sporchi eroi di Peckinpah. E’ in questo contesto e con questo “humus” espressivo che Sergio Leone, seguito e imitato subito dopo da altri registi italiani, darà forma e vita al western all’italiana, anche etichettato, non senza una piccola accezione dispregiativa, spaghetti western.

Torniamo quindi a quella “materia prima” di cui sopra, componente fondamentale e punto di partenza del genere leoniano. Alcuni degli elementi principali del western classico vengono ripresi e riutilizzati grossomodo nelle medesime accezioni: si pensi al mito della frontiera e all’ingresso devastante ed inesorabile della Storia in C’era Una Volta Il West, al tema dell’amicizia virile di Per Qualche Dollaro in Più, al tema della vendetta presente in quasi tutti i suoi western, al tema del tempo, vissuto in maniera profonda e totale da molti dei suoi personaggi. Altri vengono creati secondo una nuova personale concezione di “epoca western” o plasmati a partire da elementi presenti precedentemente a livello sporadico o embrionale. Nasce così il “modello” leoniano del gringo, eroe solitario senza un passato che giunge in una realtà corale a lui forestiera (de)stabilizzandone gli equilibri, quasi sempre col solo scopo di lucro. Sporco e con barba ispida, sprezzante e indifferente, cinico e pragmatico, è il classico “figlio di puttana” dotato, tuttavia, di un codice d’onore (come l’eroe fordiano), di un’astuzia alla James Bond e di un buon mix di venalità e cavalleria. E’ questa l’evidente caratterizzazione dei personaggi di Eastwood della “trilogia del dollaro” e più precisamente del primo film del ’64, che stranamente attinge, invece, assai di più da un’opera di Akira Kurosawa, Yojimbo – La Sfida dei Samurai (1961), che dal western yankee. Anzi, per certi versi, Per Un Pugno di Dollari si potrebbe addirittura definire un remake del film giapponese, tant’è che l’accusa di plagio non tardò ad arrivare e una lunghissima causa si protrasse fino alla cessione dei diritti d’entrata a Kurosawa per la distribuzione del film italiano in Giappone, più una percentuale anche su quelli in altri paesi asiatici.
Ma il film di Leone fu molto di più di una semplice rivisitazione in chiave western di un film sui samurai: diede linfa vitale a un genere ormai in declino, vi segnò una svolta storica, fu a detta del cineasta “una scelta di genere contro i generi”.
L’innovazione principale era senza dubbio l’approccio con cui il regista scelse di trattare la materia narrativa e di ritrarre con il suo cinema il mondo che egli immaginava pensando al West e all’America di fine ‘800. Consapevole e convinto che la funzione del cinema non sia quella di raccontare la Realtà, la Verità o la Storia, bensì di raccontare il Mito e di essere quindi finzione e sorta di ars memorativa, riconoscibile chiaramente in ogni momento, persino dal titolo (“C’era Una Volta…”), Leone fa tesoro pure di alcune peculiarità della Nouvelle Vague, affermatasi in Francia il decennio precedente, secondo cui ciò che è veramente importante non è la storia in sé, ma il modo in cui la si racconta, ovvero la regia e l’uso della macchina da presa. Traducendo in immagini la sua innata sensibilità, il suo istinto e il suo gusto per i dettagli, egli disegna il suo West con lo sguardo incantato di un bambino, piccolissimo spettatore di una realtà enorme e sovrastante che scorre con i tempi e i ritmi propri di un gioco, in cui i gesti e i segni (filmici) si ripetono con insistenza ed esagerazione (valga su tutte la scena del duello a colpi di pistola sui cappelli in Per Qualche Dollaro In Più). Proprio come un bambino che pensa e ripensa a un dettaglio, e nella memoria lo amplifica e lo distorce, Leone mette in scena un mondo ludico che prima della ragione colpisce i sensi, una dimensione fiabesca in cui tutto è esaltato senza mezze misure, nulla è risparmiato, in cui gli opposti sono ancora più estremizzati: si pensi al tipico duello, in cui il tempo dell’attesa è dilatato, grazie anche alla musica, in maniera esasperata, esagerata, quasi fuori misura, mentre l’azione vera e propria esplode con violenza e si consuma in pochissimi secondi, sempre brutale ed eccessiva.
Uno dei meriti del Nostro fu dunque quello di attuare una graduale cesura fra la concezione americana, classica, fordiana, di western e della sua messinscena, e quella che di lì in avanti avrebbe preso forma, iniziando così a spostare, più o meno consapevolmente, l’attenzione dal significato al significante: non era importante “perché” si sparava, ma “come” si sparava! Il movente perde ogni valenza quando due uomini s’incontrano e si piazzano l’uno davanti all’altro, studiandosi attentamente. Ciò che interessa a Leone è il cerimoniale, le modalità del rituale (di volta in volta diverso e funzionale alla storia), l’insieme dei gesti e delle movenze che i suoi personaggi assumono prima di “risolvere” il problema. Questo ovviamente troverà la massima espressione nello stile, fino all’estrema convergenza di forma e contenuto di C’era Una Volta Il West, in cui ogni personaggio è sempre più maschera (ad eccezione della protagonista Jill) e ovunque pervade un’aura di spettrale, assoluta, fuori dal tempo.
Molto spesso quello che può essere il fulcro narrativo, l’evento che può dettare uno sviluppo o una svolta alla storia, non viene nemmeno rappresentato, prediligendo la messa in scena di azioni che non contribuiscono all’avanzamento narrativo. Infatti, infrangendo un altro canone del western classico, Leone non si risparmia nella rappresentazione di sequenze goliardiche, spiritose, irriverenti, a volte persino triviali (il pasto nella diligenza in Giù La Testa, in cui non si sprecano i particolari sulle bocche che masticano), provocatorie, naif e insieme auliche.
La spettacolarità e l’effetto sono gli imperativi del regista (che sfrutta appieno l’insegnamento “Don’t pronunce it, see it!”), e l’utilizzo di un linguaggio da commedia è creato ad hoc per questo intento: dialoghi minimi, espressioni lapidarie che variano dall’umoristico allo strafottente, dall’ermetico al teatrale, dal tragico al comico (i più bei dialoghi sono quelli de Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo).
C’è da dire che se il western del Nostro si contrappone, per distacco ironico e parvenza ludica e favoleggiante, a quello solido, conservatore, tradizionalista e monumentale di Ford, è altrettanto vero che la dimensione tragica non viene smorzata né oscurata, è solamente, ancora una volta, trasmessa in un altro modo, sicuramente più esplicito. Le sparatorie sono sì sdrammatizzate, ma il sangue e il grandguignol sono ben visibili (colpisce sicuramente il volto tumefatto di Eastwood in Per Un Pugno di Dollari per le torture e in Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo per la sete), così come il senso di dramma non è più comunicato attraverso l’espressione del volto di qualcuno che assiste al dramma stesso, in maniera quindi allusiva, bensì attraverso immagini differenti, talvolta più dirette, talvolta più fini e misteriose.
Leone, quindi, non ci pensa due volte a rompere uno dei maggiori tabù di Hollywood: quello della morte e del rispetto di essa. Basti pensare al banchetto dei banditi in una chiesa sconsacrata in Per Qualche Dollaro In Più e alla carrozza piena di cadaveri, al maltrattamento del caporale ucciso per liberarsi dalle manette, all’apertura di una bara vecchia di decenni in Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo.

C’era Una Volta Il West è il lungometraggio che definisce una tappa fondamentale del western di Leone, è una sorta di punto angoloso del suo percorso cinematografico. E’, leonianamente parlando, la favola delle favole e la summa dello stile da lui creato. In un periodo in cui lo spaghetti era ormai prossimo ad aver sparato tutti i suoi colpi, il Nostro crea una storia affascinante e malinconica sulla base di una realtà storica verosimile e di due tematiche classiche, proprie una della sua anima “italica” e mediterranea , la vendetta, l’altra della sua anima “americana”, la nascita di una nazione.
Cinque personaggi principali (per la prima volta il protagonista è una donna) riempiono un intreccio muovendosi quasi come maschere, figure stilizzate la cui azione si colloca in una realtà senza tempo, troppo antica per essere parte della Storia, troppo giovane per essere già Mito (il duello finale ai margini del cantiere ferroviario, senza alcun spettatore, è l’immagine più eloquente).

L’ultimo western di Leone è Giù La Testa, una storia d’amicizia fra un peone a cui vengono sterminati i figli e un terrorista irlandese esule, sullo sfondo della rivoluzione messicana di Zapata e Villa (per ambientazione e background film come questo vennero curiosamente etichettati col nome di tortilla-western). La pellicola venne girata da Leone nel ’71, suo malgrado, in quanto all’inizio egli pensava solamente di produrla affidando la regia a Bogdanovich, il quale si rivelò invece inadatto allo scopo.
Di lì a poco il western all’italiana poté considerarsi defunto e Leone, dopo le produzioni di Il Mio Nome è Nessuno (1973) e Un Genio, Due Compari, Un Pollo (1975), abbandonò definitivamente il genere e si preparò a partorire quella che è quasi universalmente riconosciuta la sua opera migliore, sicuramente la più ambiziosa e la più sofferta: C’era Una Volta in America (1984).

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"Poi improvvisamente ogni cosa fu in tutto e per tutto simile al jazz [...] vidi Japhy che scendeva la montagna con immensi balzi di sei metri [...] e in quel baleno mi resi conto che è impossibile cadere giù da una montagna idiota che non sei altro!"

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alex82

Reg.: 19 Giu 2004
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Da: Volpago del Montello (TV)
Inviato: 16-03-2005 10:09  
Ora, guardando alla sua intera opera e, dopo aver parlato di materia, modelli e contenuti, cerchiamo di capire quali sono i segni inconfondibili che caratterizzano il cinema di Leone e che ci permettono di apprezzare ciò che racconta, più dal punto di vista del “come” che del “cosa”.
Infatti, al servizio di tutto ciò che si è affermato finora si pone una forma, nuova e geniale, che è inequivocabile marchio d’autore.
La rivoluzione formale nel cinema di Leone inizia alla base del linguaggio cinematografico: dalla grammatica e dalla sintassi. Nelle scene statiche, in esterni, egli spazia con estrema disinvoltura attraverso tutta la scala dei campi e dei piani, dal campo lunghissimo al particolare. Innovativa e caratterizzante della sua messinscena era la composizione in profondità, ovvero la successione generalmente di tre inquadrature su una figura in spazio aperto: dettaglio da vicino, media distanza, dettaglio sullo sfondo. Il primissimo piano e il particolare e l’alternanza di essi con campi medi e lunghi sono delle costanti nelle fasi di duello, così come l’attacco sull’asse da campo lungo a primo piano e l’accelerazione del montaggio in prossimità della sparatoria. La posizione della macchina da presa è un’altra peculiarità dell’estetica leoniana: un punto di vista ribassato rispetto all’altezza degli occhi dei personaggi e di scorcio rispetto ai loro sguardi, nelle scene d’azione, conferisce alla narrazione la già citata tipica atmosfera ludica e favoleggiante. Per quanto riguarda, invece, i movimenti di macchina, frequenti sono ad esempio le zoomate veloci su volti o dettagli, sovente accompagnate da suoni o effetti particolari, alcuni dolly maestosi ad allargare su spazi da scoprire o da introdurre narrativamente (il cimitero alla fine de Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo, il paese dietro alla stazione in C’Era Una Volta Il West, omaggiato in altri film tra cui Ritorno al Futuro - parte terza) e sicuramente le semisoggettive dal punto di vista della pistola o dell’arma in questione, a seguire, sullo sfondo, le vittime/birilli che cadono sotto i colpi velocissimi.
Pure la punteggiatura presenta delle precise scelte ricorrenti. Il passaggio tra una sequenza e quella successiva a volte avviene con uno stacco su un oggetto particolare, che riassume il significato dell’intero episodio precedente e che si ritrova in quello seguente; a volte con un’analogia di ritmi (per esempio una sparatoria e una marcia); e ancora con un’assonanza o una somiglianza tra suoni (celebre lo sparo verso il più piccolo dei McBain e il fischio del treno in C’era Una Volta Il West).
A livello narratologico, frequente è invece l’utilizzo del montaggio alternato, forse meno classico e più manierista, e di una costruzione del racconto “a stazioni”, dove il gusto del cerimoniale (duelli, attese, addii) comporta una dilatazione del tempo a scapito della percezione e del piacere dell’intreccio. Spesso addirittura si percepisce un senso di antinarratività del racconto, che con flashback frammentati (Argento è debitore), dilatazioni esasperate e accelerazioni improvvise, elisioni e ridondanze visive e sonore, sospende il flusso degli eventi, salvo mostrarne gli esiti e le conseguenze.
Un’ultima menzione la merita la musica, sempre composta dal vecchio amico d’infanzia Ennio Morricone a partire, scaramanticamente, solo da motivi scartati nelle collaborazioni per altre colonne sonore. Si deve certamente alle sue composizioni quell’intima fusione tra immagine e dramma, che può permettere quelle famose, esasperate dilatazioni temporali a cui Leone ha sempre voluto farci assistere. Abile anche nell’uso di sonorità al di fuori delle strumentazioni classiche, Morricone ci ha regalato motivi pieni di epos, liricità e sentimento, quali sicuramente il tema principale di C’era Una Volta Il West, Sean Sean di Giù La Testa, come anche quelli della trilogia del dollaro.

Lo spaghetti western, nonostante qualche pellicola che anticipò la nascita del genere nei primissimi anni ’60, esplose dopo Per Un Pugno di Dollari, venne apprezzato in Europa come in America, venne sfruttato intensivamente con oltre 250 produzioni in meno di dieci anni, e morì altrettanto fugacemente.


Filmografia accreditata di Sergio Leone:

Il Colosso di Rodi (1960)
Per Un Pugno di Dollari (1964)
Per Qualche Dollaro in Più (1965)
Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo (1966)
C’era Una Volta Il West (1968)
Giù La Testa (1971)
C’era Una Volta in America (1984)

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Onceupon

Reg.: 26 Gen 2005
Messaggi: 625
Da: napoli (NA)
Inviato: 16-03-2005 21:01  
Sergio Leone è uno dei registi più rivalutati negli ultimi anni negli Stati Uniti dopo che per svariato tempo era stato abbastanza boicottato dallo "star-system" Hollywodiano.
La sua colpa era di non essere un regista di lingua inglese e soprattutto l'essersi cimentato in un genere (il western) che è il genere americano per eccellenza...
Ammettere che Sergio Leone sia stato il più grande regista di film western di sempre era per Hollywood uno smacco troppo grande, cosicchè coniando l'acronimo dispregiativo di "Spaghetti western", si preferì prendere le distanze da questo genere, considerato minore rispetto al western americano puro.
Il western di Leone è sicuramente diverso (in meglio) da quello americano. Nelle storie di Leone non esistono Cow-Boy ed indiani, si può dire che non esistano neanche i "buoni" nel senso più integerrimo del termine: sono più o meno scaltri approfittatori (qualcuno dei quali, ogni tanto si ricorda di avere una coscienza: vedi Eastwood in "Per un pugno di dollari" quando ricongiunge la moglie "sequestrata" al marito e al figlio e li fa scappare), Bounty-killer, cacciatori di taglie, che si muovono tra l'estremo west americano e la frontiera messicana.
Al candido gilè di velluto di John Wayne, Leone oppone il Poncho sporco (per davvero...non lo lavò per tutta la trilogia del dollaro...)di Clint Eastwood. Il mandriano buono americano in perenne lotta con gli sporchi e cattivi pellirossa, è rimpiazzato da uomini svelti con la pistola, che parlano poco e sono pronti a fregarsi l'uno con l'altro in nome del dio dollaro...
La rivoluzione nella visione del west che aveva Leone, affascinò gli stessi miti del western: In "Per un pugno di dollari", Leone, con un budget "da fame" scommisse su uno sconosciuto Clint Eastwood (alle cui potenzialità forse Leone non credette fino in fondo all'inizio...attribuendogli solo due espressioni...con o senza sigaro...), sul promettente Gian Maria Volontè, sull' amico Mario Brega e su un gruppo di attori spagnoli, tedeschi, semi-sconosciuti. Costato appena un centinaio di milioni, il capostipite degli "spaghetti western" (a metà la tradizione Samurai di Kurosawa e i temi della commedia dell'arte goldoniana: vedi l'"Arlecchino servo dei due padroni"....)incassò oltre 15 miliardi.
Arrivarono così alla corte di Leone i dollari e i miti del cinema western: Lee Van Cleef, Eli Wallach, Charles Bronson, Henry Fonda, Jason Robards, Rod Steiger, James Coburn. Mancò l'incontro di Leone con John Wayne (peraltro ormai stella in declino), Yule Brinner (che aveva ormai cambiato genere) e Gary Cooper (che era morto già da qualche anno).
La grandezza di Leone fu il riuscire a sopravvivere al declino del suo genere: Con "C'era una volta in America" (tagliato negli Stati Uniti dalle quasi 4 ore a 2 ore e mezzo...risultando ai botteghini un flop...), dopo 15 anni di lungo lavoro, da vita ad un'opera monumentale da consegnare alla storia del cinema: una "recherche" proustiana in immagini, che sarà il punto di riferimento principale di tutti coloro, che dopo Leone, si cimenteranno nel genere "gangsters-movies".....
La riscoperta di Leone, si deve anzitutto alla grandezza di Eastwood, che gli dedicò "Gli spietati" (riportando in auge il genere western), e che non manca di ammettere ogni volta di come sarebbe stata diversa la sua carriera se non avesse incontrato Sergio Leone....
Negli ultimi anni anche Quentin Tarantino, probabilmente il più grande regista in circolazione, ha confessato il suo debito artistico nei confronti del cinema di Leone, richiamando in "Kill Bill" l'atmosfera degli spaghetti western e riproponendo la classica inquadratura del taglio d'occhi del protagonista (un pò la firma artistica del cinema di Leone).
Mi viene in mente il povero M. J. Fox quando in "Ritorno al futuro" parte terza (ambientato nel west), gli viene chiesto il nome....e lui pensando al genere western risponde Clint Eastwood (e non John Wayne...)

[ Questo messaggio è stato modificato da: Onceupon il 16-03-2005 alle 21:06 ]

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DonNight89

Reg.: 12 Feb 2005
Messaggi: 377
Da: Spongano (LE)
Inviato: 02-05-2005 20:22  
alla faccia del testo

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