mulaky
Reg.: 09 Lug 2002 Messaggi: 32104 Da: Catania (CT)
| Inviato: 06-05-2004 12:29 |
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Il lupo dagli occhi d’oro
...Tornando a casa non poteva fare a meno di pensare a quegli strani occhi... d’oro dorato... a quello sguardo triste, quasi umano...
L’ansimare caldo saliva e si confondeva con la nebbia che gli sfiorava le orecchie. Mentre il rumore leggero e ritmico delle sue zampe sul prato gli faceva compagnia. Gli dava conforto.
Ora che la tensione della caccia era finita, il dolore delle ferite si faceva sentire di nuovo. Doveva assolutamente trovare un riparo per riposare un po’.
Era solo, ormai. Il branco viveva molto più in basso, vicino alle case. A lui non piaceva. Preferiva il silenzio vitale dei luoghi inaccessibili.
I lupi del branco non andavano più a caccia. Erano pigri. Istupiditi dal desiderio di una vita senza dignità e troppo comoda. Rubavano per vivere. Si procuravano il cibo entrando di soppiatto in qualche pollaio o nel retrobottega della macelleria del paese. Andavano sempre in gruppo. Lui non ricordava di averne mai visto uno andare solo, nemmeno per una passeggiata. Erano la paura e l’inerzia a tenerli uniti. Ognuno si adeguava alla vita dell’altro, e alla fine tutti facevano le stesse cose. Quando nacque la situazione era questa. Per di più, alla degenerazione morale, si era aggiunta la ferocia di una lotta senza quartiere con un altro branco che voleva il predominio su tutto il territorio.
Le prime cose che videro i suoi occhi furono il sangue e la morte, e forse ne succhiò insieme al latte di sua madre. Per questo assunsero uno strano colore, insolito, insomma diverso. Non erano gialli come quelli degli altri lupi, ma di un nocciola dorato che sotto al sole diventava brillante come l’oro.
In un primo tempo nessuno se ne accorse e la sua diversità passò inosservata. Anche perché erano tempi duri e difficili, e nessuno gli badava.
Le perdite e i danni della lotta, che era durata lungo tempo, erano stati ingenti. Il degrado morale aveva raggiunto livelli bassi come non ne erano mai stati toccati. Per procurarsi un po’ di cibo, tutti erano disposti a tutto. La miseria li univa, ma nello stesso tempo li rendeva nemici l’uno all’altro e, cosa ancor più grave, a se stessi.
Lui spesso restava solo. La sua famiglia era sempre fuori con il resto del branco in cerca di cibo. Così il suo mondo non venne contaminato da quello dei familiari.
E prima ancora che si accorgessero della sua esistenza, le sue idee, il suo sentire, i suoi valori erano già saldi in lui. Inizialmente viveva in un mondo creato solo dalla sua fantasia, dove il sogno spesso si confondeva con la realtà. Probabilmente fu questo che gli permise di sopravvivere e di rafforzarsi. Si era chiuso in questo suo universo fantastico e riusciva a bloccare all’esterno tutto quello che per lui era impossibile accettare.
Un giorno poi, per puro caso, qualcuno si rese conto della diversità dei suoi occhi. Immediatamente il sospetto di tutti gli altri lupi lo circondò e gli creò intorno un vero e proprio cerchio di spine, mano a mano che il sospetto aumentava, il cerchio si stringeva sempre di più. E lui sentiva le spine entrare profondamente nella sua carne, che un dolore sordo e intenso faceva sanguinare.
Nessuno lo aiutò. E lui fu sempre più solo. Lo guardavano con sospetto anche i suoi familiari, e ciò contribuì a rendere più stretto il cerchio di spine. Del resto loro si comportavano come tutti gli altri lupi del branco. Preoccupati solo di trovare cibo. Più ne trovavano e più ne volevano. Erano insaziabili.
Il piccolo lupo capì che in quella situazione gli era impossibile sopravvivere. Era troppo giovane per andare a via e vivere da solo nella foresta. Doveva trovare una soluzione. Allora escogitò un trucco. Imparo a vivere con gli occhi quasi chiusi. E questo non perché avesse paura di guardare quanto gli accadeva intorno – l’orrore di quello che intravedeva con gli occhi socchiusi lo segnò lo stesso profondamente – ma perché nessuno potesse vedere il colore dei suoi occhi.
Per qualche tempo le cose andarono meglio, il cerchio del sospetto si allentò leggermente e con esso le spine. Ma anche se non si aprivano nuove ferite, le vecchie non si rimarginavano e continuavano a sanguinare. Questo lo rese sempre più solo, e per molto tempo la sua anima non ebbe mai un sorriso.
Arrivò un giorno in cui capì che ormai era quasi un adulto e che poteva farcela. Se ne andò senza salutare nessuno. I lupi del branco non se ne accorsero subito, e nemmeno la sua famiglia. Passò del tempo prima che si rendessero conto che se ne era andato. E non capirono il perché. Anche se era sempre stato strano, diverso da loro. Anche se i suoi occhi non erano gli occhi di un lupo. Lui ci mise molto tempo a liberarsi del loro ricordo. Poi arrivò un giorno in cui la sua infanzia e la sua adolescenza sembrarono non appartenergli più. I grandi silenzi della foresta e il territorio sconfinato che aveva a disposizione parevano aver in parte placato la sua anima. Ma la solitudine era immensa, di giorno dormiva cullato dal profumo dell’erba. Di notte andava a caccia. Finché aveva fame. Finché era stanco. Però all’improvviso, specialmente vero la fine della notte, quando l’alba stava per arrivare, una strana malinconia lo invadeva. O quando nelle notti di luna era ancora più irrequieto si faceva quasi dolore per l’assenza di qualcosa che non conosceva.
Era una strana fame. Ma non di carne e sangue, di cui era già sazio. Era una fame che nasceva dal profondo delle sue viscere e arrivava fino al cuore.
Intanto l’alba si avvicinava e la nebbia stava salendo. Per la prima volta si era spinto molto oltre il suo territorio, aveva pagato questa sua curiosità con qualche ferita, ma era soddisfatto. Esplorare nuovi territori gli piaceva molto. Alla fine della radura si alzavano fitti degli alberi, oltre i quali doveva stendersi un’immensa vallata. Vi si diresse, certo che lì avrebbe trovato un riparo. Aveva sete. Prima del bosco notò una pozza d’acqua, residuo del temporale del giorno precedente. Affrettò leggermente il passo. L’acqua gelato diede sollievo alla sua gola. Si leccò le ferite, poi bevve di nuovo. Ormai era l’alba. Entrò tra gli alberi. La luce del solo, che si alzava velocemente, filtrava attraverso la nebbia. L’aria del mattino ne spostava piccoli banchi, lasciando spazi limpidi.
Bere l’aveva ristorato. Quindi, prima di trovare un posto per dormire, decise di dare un’occhiata alla valle. Ma, mentre andava, già si guardava intorno per individuare un riparo sicuro. Il tempo che aveva trascorso da solo nella foresta gli aveva insegnato che dormire al sicuro spesso significava aver salva la vita. Proprio lì, dove il bosco cominciava a diradarsi, degli arbusti coprivano delle rocce. Andò ad accertarsi che la grotta non fosse già occupata. Entrando si rese conto che era molto grande. In fondo doveva aprirsi anche un’altra uscita. Si vedeva una lice carica di pulviscolo dorato filtrare all’interno e si sentiva il profumo dell’aria del mattino. Dall’odore non doveva avervi mai dormito nessuno. Allora andò a controllare l’altra uscita. Nemmeno quella si notava con facilità dall’esterno. Dava direttamente sulla valle. Delle grandi felci, cresciute tra le rocce, la nascondevano.
Il rumore dell’acqua gli parlò di una sorgente. Girò la testa per vedere dove fosse e subito avvertì l’odore di una presenza umana, il canto dell’acqua e l’odore venivano dalla stessa direzione. La nuvole basse in movimento ne impedivano la vista. Correvano le nuvole in tutta la valle. Sfioravano l’erba, campi coltivati, scoprendo e coprendo all’improvviso alberi, mandrie di cavalli e di buoi. Ma il lupo dirigeva il suo naso e i suoi occhi verso la sorgente. Quando si aprì al suo sguardo la visione dell’acqua che sgorgava tra le rocce. Il rumore si era materializzato in una sorgente limpidissima. Le nuvole avanzarono ancora e davanti ai suoi occhi si incarnò l’odore. Era una giovane femmina. E stranamente, lei non ebbe paura di lui. I loro occhi si incontrarono. Si guardarono a lungo. Il lupo restò rapito da quello sguardo. Per la prima volta nella sua vita qualcuno lo osservava senza odio, senza indifferenza, senza paura. C’erano curiosità e simpatia in quello sguardo. Sentimenti che lui non aveva mai trovato né tra i suoi simili né tra i pochi umani che aveva avuto occasione di incontrare. L’aria del mattino spostò altre nuvole, e la visione scomparve. Immediatamente il lupo sentì scendere la stanchezza di quella lunga notte e rientrò nella sua nuova tana.
Si addormentò con l’immagine di lei negli occhi e nel cuore.
La giovane donna sorrise all’immagine ormai scomparsa del lupo e si avviò a riprendere il cavallo che aveva lasciato più in basso. Tornando a casa non poteva fare a meno di pensare a quegli strani occhi… d’oro lucente… d’oro dorato… e a quello sguardo triste, quasi umano. Era certa che l’avrebbe incontrato di nuovo, e dentro di sé lo chiamò “il lupo dagli occhi d’oro”.
Un raggio di sole, rosso di tramonto, entrò dalla fessura d’ingresso della tana. Andò a colpire il lupo e lo svegliò. Il ricordo di lei lo fece balzare subito in piedi. Il lupo si diresse immediatamente verso la sorgente. Bevve dell’acqua. Poi fece il giro tutto intorno, per andare nel punto esatto dove aveva visto la giovane femmina.
Trovò l’odore di lei e, seguendolo attraverso la valle, arrivò in vista della casa. L’aveva trovata. Si accucciò a terra. A quella distanza il bestiame ancora non sentiva la sua presenza. La fame cominciava a morderlo. Ma frenò il suo istinto. Non poteva toccare quelle bestie. Appartenevano agli uomini che abitavano in quella casa. Se le avesse uccise, avrebbero iniziato a dargli la caccia. E non si sarebbe più potuto avvicinare. Il lupo invece controllò il vento per poter arrivare più vicino, senza che il bestiame lo sentisse. Era una notte buia e senza luna.
Questo lo favorì. A quella distanza poteva udire le voci e vedere distintamente l’interno della casa. Un maschio e una femmina più anziani sedevano a tavola con lei. Dovevano essere i suoi genitori. Rimase lì a lungo, a guardare immobile, ad ascoltare in silenzio. Allora desiderò essere un uomo. Potersi esprimere attraverso le parole. Sedere accanto a quella giovane donna e parlare con il suo stesso linguaggio. Lei, ne era sicuro, avrebbe capito la sua melanconia e avrebbe guarito il suo dolore. Se fosse stato un uomo, lei lo avrebbe amato. I morsi della fame gli strinsero le viscere e di colpo gli ricordano il suo essere lupo. Una strana rabbia gli percorse il sangue. E quella notte, per la prima volta, uccise oltre la sazietà. Tornò alla tana, sfinito nel corpo e nel cuore. Dormì profondamente dall’alba al tramonto, sognando di lei.
Quando uscì, un sottile filo d’argento delicatamente illuminava il cielo. La luna cominciava già a crescere. Il lupo la fissò, finché la notte non scese completamente e le stelle non furono tutte accese. Quindi corse di nuovo verso la casa di lei.
La giovane donna era fuori e lo vide arrivare. Si guardarono. Il lupo si fermò. L’odore di lei gli giunse con il vento. Si sentì quasi senza forze. Come in primavera, quando il profumo dei fiori satura l’aria. Poi la madre la chiamò.
E lei entrò in casa.
Ora sapeva anche il suo nome e gli sembrò che risuonasse a lungo per tutta la vallata. E restò lì, seduto, ad ascoltare quel suono, che invece era solo nella sua mente. Lei, prima di andare a dormire, guardò dalla finestra e vide il lupo che stava ancora lì, immobile. I loro occhi si incontrarono di nuovo. Lei gli fece un cenno con la mano prima di spegnere la lampada.
E così accadde per tutte le notti che seguirono. Intanto la luna cresceva e con essa cresceva nel lupo una rabbia sorda e violenta. Non si accettava più. Voleva essere diverso. Voleva sopprimere la bestia e diventare un uomo. Ma la rabbia aumentava in lui il desiderio caldo di sangue. Uccideva con ferocia. Senza pietà. Non più per fame o per necessità. Uccideva solo per placare un furore che non gli dava tregua. Poi tornava alla sua tana. Nauseato dal troppo sangue.
Mancava una settimana alla luna piena. Quella sera il lupo si svegliò prima del tramonto. Come sempre corse da lei. La musica colpì le sue orecchie fin da lontano. Il sole stava calando, quando arrivò, e già la luna si faceva vedere.
Un suono come quello non l’aveva mai udito. Il lupo si guardò intorno. Smarrito dalla dolcezza di quella melodia, cercò con lo sguardo la giocane donna. La vide all’interno della casa. Era seduta ala pianoforte e stava cantando. Rapito dalla musica, dimenticò se stesso. Il suo corpo si scompose e il suo cuore accordò i battiti con l’armonia dell’universo. Pianse. E nelle lacrime si sciolse tutta la sua rabbia.
Quella notte non uccise. Non voleva più sentire il sapore caldo del sangue. Era quello che alimentava il suo furore. Mangiò bacche e frutti. Poi attese l’alba, immerso nell’acqua della sorgente. Quindi rientrò nella sua tana. E mentre dormiva, sognò di lei, nella musica.
Questo accadde per tutti i giorni successivi fino alla settima notte. Per tutto il giorno non era riuscito a dormire. La musica e il canto di lei risuonavano nella sua testa e riempivano la tana senza dargli tregua. Quando uscì, il sole era già rosso. Il lupo entrò nell’acqua limpida della sorgente e lo guardò scomparire dietro alla foresta. Intanto la luna si alzava. Tonda, enorme. Dapprima rossa, poi gialla e infine argento. Il suo ululato squarciò il cielo e arrivò fino alle stessa. L’acqua aveva inzuppato il suo pelo fino a bagnare anche la pelle. Ebbe freddo e corse da lei. Ne fu come ipnotizzato. Il canto della giovane lo colpì diretto al cuore. Di nuovo le lacrime scesero dai suoi occhi. E gli sembrò di guardare la luna attraverso l’acqua.
Tutto ebbe inizio in quel momento. Cominciò con una sofferenza indescrivibile. Il lupo sentiva il suo corpo cambiare, scomporsi. Le sue ossa allungarsi, modificarsi. La sua carne e i suoi muscoli trasformarsi. La sua pelle mutare. Ma non oppose nessuna resistenza al dolore. Sapeva che avrebbe portato il cambiamento. Per prima cosa vide le sue mani. Erano bianche e affusolate. Se le passò sul viso e tra i capelli. Poi si guardò il corpo. Quindi pronunciò il nome di lei. Così conobbe il suono della sua voce. In quel momento la giovane donna uscì e lo vide. Lo riconobbe dagli occhi d’oro e gli sorrise. Allora gli corse incontro per abbracciarlo.
E lui sentì che non si sarebbero più lasciati.
Elfriede Gaeng – Buchi di vuoto – Edizioni Interculturali
_________________ What you fear in the night in the day comes to call anyway
Well darling if the shit came out then, I suppose that the shit went in
(A.D.) |
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