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[quote][i]In data 2006-11-05 10:58, gatsby scrive:[/i][b] Visto, vado a ruota libera. Conterrà spoiler. Brutto e cattivo. Non solo Inarritu e uil suo sceneggiatore si ripetono nella struttura dopo Amores perros, 21 Grammi e (per Arriaga) Le tre Sepolture, ma peggiorano. Il film come dice il titolo è sull’incomunicabilità, sull’incomprensione.Quattro posti lontani nel mondo legati da un “piccolo” evento. Diciamo che è anche un film sulla globalizzazione, sui “nostri tempi”. Ma come è costruito? Dopo 10 minuti il concetto viene chiarito: Pitt che non riesce a farsi capire dal proprietario del camioncino, la ragazza è sordomuta e non può parlare, la messicana sta in America e non viene capita la sua difficoltà nel dover badare ai bambini per andare al matrimonio del figlio. Più, come detto, c’è già il titolo. Insomma dopo dieci minuti abbiamo capito che il mondo è tremendo, non ci si capisce nonostante siamo un miscuglio di nazionalità e che le storie di questi personaggi sono tutte cambiate per la stessa ragione (all’inizio pensiamo lo sparo, poi capiamo anche il legame con il giapponese). Poi il nulla. Non c’è evoluzione del concetto, nulla di nulla, nessun altra considerazione. Ed ecco che allora entra in sena la “cattiveria” di Inarritu. Per mantenere desta l’attenzione dello spettatore ecco che lo si fa soffrire. Allora ecco la riproposizione dello sparo a Cate Blanchett: dal momento in cui lei e Pitt sono inquadrati sul pullman abbiamo già capito che è lei a ricevere il proiettile, quindi la suspance è altissima. E lo si mostra, si mostra quando riceve il proiettile, quanto sangue perde, come in quel paese la vecchia debba tenere la ferita premuta, lei che deve pisciare, lei che ha il braccio in cancrena. Logico interesse è capire come finirà, siamo angosciati che dei bambini possano aver rovinato la vita di non si sa quante persone (la Blanchett, Pitt, i figli, i messicani….) ., ma questo è solo un espediente per dirci: i turisti stranieri hanno paura a rimanere nel villaggio perché è straniero e i politici sono lenti perché i rapporti tra queste due nazioni sono difficili. Insomma: il mondo è tremendo, non ci si capisce nonostante siamo un miscuglio di nazionalità. Inarritu monta magoni su magoni, giocando con il montaggio e le scene tragiche per dare drammaticità a questo concetto. Gira su se stesso, si attorciglia, costruisce una sovrastruttura ( già dopo pochi minuti abbiamo i due limiti temporali nel cui spazio si svolge la vicenda: il regalo del fucile e il ricevimento della chiamata di Pitt dei figli americani a casa), al cui interno cerca di mettere più drammaticità possibile. E non critico il forzare gli eventi (anche se la “tragedia” per sua definizione dovrebbe partire da cose “reali”) pur di combinarli, ma di come insista senza alcuna altra ragione, sugli eventi di maggior impatto crudele che possano esistere, e utilizzi un montaggio non sincronizzato perché lo spettatore non perda mai contatto con la narrazione e si chieda sempre come vada a finire. Non c’è una ragione “concettuale”, ma solo un abile espediente. La stesa storia narrata cronologicamente o con un montaggio parallelo, avrebbe rotto dopo mezz’ora. C’è quella furbizia in questo film, che non sopporto. La furbizia che stava anche nel pessimo Crash di Haggis dello scorso anno: trovato un tema (là era il razzismo) lo si ripropone in tutti i modi e in tutte le salse, dicendo che è attuale, che riguarda tutti e facendo vedere a che conseguenze tragiche possa portare Per evitare che qualcuno possa obiettare che io non abbia capito qualcosa, ricostruisco il film. Sull’incomunicabilità le scene di Inarritu sono: la contrattazione del fucile (in questo caso la comune lingua giova ad entrambi, però il senso della discussione è negativo perché porterà allo sparo alla Blanchett) Pitt e La Blanchett che non riescono più a parlarsi dopo la morte dell’infante (altro mttone gratuito), Pitt che non riesce a fermare il camioncino, i turisti occidentali che hanno paura del villaggio perché è un villaggio straniere, arabo, i rapporti diplomatici USA-Marocco che evitano un presto soccorso della Blanchett; tutto quel che riguarda la triste ragazza sordomuta, la tata messicana e il nipote alla frontiera con il poliziotto (anche lì c’è diffidenza) più altre cose che adesso non ricordo. Non per forza non ci si capisce, alcune volte ci si capisce, ma valeva la pena non capirsi. L’ultima scena: in verità la ragazza giapponese ha ucciso la madre con il fucile, o comunque l’ha vista uccidersi con quel fucile. Il padre, per proteggerla (dalla polizia o dal ricordo ossessivo che avrebbe provocato la visione di un fucile), ha regalato il fucile al marocchino. Ecco quindi che la storia di quello sparo in Marocco nasce perché quella ragazza è nata sordomuta, cosa che non si sa come ha portato alla morte della madre della ragazza (suicidata per il dispiacere, uccisa per qualche oscura ragione legata alla psicolabilità della ragazza). Un legame difficile che Inarritu fa in modo che non tutti possano coglierlo, o comunque che rimane sfumato. Ognuno così ci vede quello che vuole, o pensa che chissà cosa si nasconda dietro che questo regista così “alto” ci stia dicendo (così come non vediamo il messaggio dato al poliziotto). Ed invece ci dice la stessa cosa da due ore, identica: il mondo è tremendo, non ci si capisce nonostante siamo un miscuglio di nazionalità, di tecnologie per comunicare e per le informazioni. Un film brutto, e odiosamente cattivo, uno specchietto per le allodole: dentro c’è giusto una frase con tanto, tantissimo nulla. [/b][/quote]
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