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L'ufficiale e la spia

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Francesco Pozzo21 novembre 2019Voto: 8.0
 

  • Foto dal film L'ufficiale e la spia
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Basterebbe la prima ieratica sequenza di questo J’Accuse (in Italia L’ufficiale e la spia), un solenne campo totale che riprende lentamente la spoliazione e la degradazione dell’innocente soldato Alfred Dreyfus nel silenzio tombale dell’Esplanade des Invalides davanti agli occhi di Parigi e del tenente colonnello Marie-Georges Picquart, per assicurarci che Roman Polanski non ha girato semplicemente un grande film, ma uno dei più belli della sua carriera. Una sequenza potente, asciutta, raggelante, di limpida classicità, introdotta da una gelida didascalia che ci riporta subito alla veridicità di fatti che non possiamo ignorare e che per questo ci turbano ancora di più, un esergo che riannodandosi al passato ci invita a riflettere con forza e senza infingimenti su realtà ed atteggiamenti tristemente concreti e mai debellati del tutto.

Picquart, lo si capirà presto, è un individuo che si potrebbe definire normale, un banale antisemita come tanti che disprezza gli ebrei non per convinzioni personali ma più per semplice consuetudine, un uomo apparentemente uguale a tutti gli altri eppure mosso da una coscienza che gli permette, nel momento in cui vengono a galla orrori e malefatte di una macchina del potere disposta a tutto pur di tutelare i propri loschi interessi, di far luce sulla verità (una costante della filmografia polanskiana dai tempi di Chinatown). Perché l’integerrimo tenente, e di riflesso Polanski (di nuovo con Robert Harris dopo L’uomo nell’ombra, un connubio benedetto), cercano una cosa soltanto: di disvelare le menzogne alla base di un avvenimento che agli albori del cinematografo divise la Terza Repubblica Francese e che spinse Émile Zola (bellissimo il cameo) a puntare il dito contro il tossico clima di antisemitismo imperante con il suo celebre articolo apparso su L’Aurore cui rimanda il titolo del film, interrogandosi in primo luogo su come un’atrocità simile abbia potuto verificarsi e su come un’istituzione come l’esercito abbia potuto avallarla insabbiando la scomoda e bruciante realtà dei fatti.

Il film è semplicemente magistrale: lineare e senza orpelli ma capace di coinvolgere prendendoci alla gola come il giallo più vertiginoso e di carpire l’essenza e le reali implicazioni di questo caso limite che si riverberò sul resto del mondo divenendo il simbolo perfetto dell’ingiustizia politica e di ciò che si arriva a compiere in nome degli interessi nazionali più biechi, una materia che Polanski riesce a dinamizzare destreggiandosi abilmente fra nomi, rimandi ed infinite ramificazioni appassionandoci ed illuminando le nostre coscienze tramite uno scandalo all’apparenza lontano ma che si ricollega inevitabilmente alla tetra ambiguità del nostro presente, alle sentenze istantanee dei social media e alla bile delle piazze, alle cacce alle streghe e alla violenze fisiche e verbali, al razzismo e alla xenofobia dilaganti, ai nuovi maccartismi e ai fascismi che serpeggiano in Europa e che si propagano come una macchia d’inchiostro nel resto del mondo fino a sfociare nell’antisemitismo di ritorno e nelle sue più allarmanti recrudescenze, un male atavico ed inestirpabile che sembra essersi originato proprio lì, da quell’infamante caso che si prolungò per oltre un ventennio fino a sfiorare il collasso e la guerra civile, miccia detonante di un film, questa volta bisogna dirlo, necessario ed importante, un antidoto alle turgide, leccate ed inamidate rievocazioni storiche in costume che vediamo troppo spesso su grande e piccolo schermo e che andrebbe visionato in coppia, possibilmente anche nelle scuole, con Il nastro bianco di Michael Haneke (e la sequenza in cui la folla rabbiosa brucia in piazza Nanà e le altre opere di Zola preannunciando altri e ben più tragici roghi che verranno di lì a breve è sempre un violento e salutare pugno allo stomaco).

Ogni sequenza di questo film, che sia all’aria aperta della campagna francese o nelle opache e fuligginose strade di una Parigi notturna ed opprimente mirabilmente ricostruita, è come un lucente dipinto cristallizzato nel tempo, alcuni momenti ricordano le sublimi composizioni e i morbidi e rifulgenti colori di Renoir (ed Emanuelle Seigner mangia le fragole come Nastassja Kinski in Tess) e traspare al contempo un senso di coraggio e limpida integrità che riporta al cuore e alla mente gli Orizzonti di Gloria di kubrickiana memoria, riallacciandosi e mescolandosi però al vissuto di un autore che ci regala un film personale, decisivo e determinante quasi quanto lo fu al tempo Il Pianista per le sue origini e per i suoi trascorsi di ebreo perseguitato, l’opera di un uomo da sempre ossessionato dalle paranoie hitchcockiane della paura e della falsa colpevolezza dell’individuo intrappolato in qualcosa più grande di lui ma al tempo stesso sempre più allarmato dall’oscurità e dalle incertezze del presente, timori ed ambivalenze che sceglie di affrontare adottando saggiamente e forse inaspettatamente il punto di vista del tenente (un’altra figura caduta nell’oblio del tempo e della memoria come Jimmy Hoffa e gli altri meravigliosi antieroi scorsesiani) e tenendosi invece lontano dall’agonia e dalla solitudine dell’oppresso, da quello stremato Dreyfus intrappolato nell’Isola del Diavolo della Guyana francese e di ritorno solo nel secco e bellissimo finale (splendida la fulminea sequenza virata in seppia dello svolgimento di un barbaro supplizio fatto di grigie giornate dolorose e tutte uguali).

Polanski (dinnanzi alle cui sventure, ricordiamolo, chiunque sarebbe crollato miseramente al primo colpo) non fa certo mistero di comprendere e di identificarsi totalmente nel dramma umano e giudiziario della vittima Dreyfus (un inedito, emaciato e stupefacente Louis Garrel) e di tutti coloro che combattono con veemenza pregiudizi e condanne ritenute ingiuste omaggiando ed ammirando al tempo stesso la forza esemplare con cui Picquart affronta l’iniziale débâcle rialzandosi ogni volta con vigore sempre rinnovato (e suonando il piano fra rovine concrete e simboliche come il Wladyslaw Szpilman di Adrien Brody), ma nemmeno per un istante si antepone ad essi assimilandoli banalmente a se stesso e ai suoi tormenti privati (non sarebbe uno dei più grandi registi viventi, altrimenti), riuscendo invece a farne qualcosa di complesso ed universale, una grande lezione di cinema e di etica dove non c’è spazio per moralismi e sdilinquimenti inutili ma solo per la ricerca della giustizia e della verità, del ritrovamento dell’onore e di un’onestà apparentemente sepolta sotto le macerie dell’ipocrisia e delle turpi manovre di palazzo (guardate a tal proposito la stupenda sequenza finale con seguente didascalia conclusiva, prima della dissolvenza in nero che chiude apparentemente tutto), disegnando ed intrecciando un vortice di personaggi uno più memorabile dell’altro e tutti perfettamente cesellati e delineati in questo straordinario affresco la cui semplicità di linguaggio è speculare alla profondità dei suoi contenuti e alla fitta rete di eventi che Polanski sbroglia con una grazia ed un’eleganza che appartiene solo ai grandi maestri, riuscendo ancora una volta grazie ai puri ed essenziali strumenti del cinema a far luce sulla complessità dell’oggi filtrandolo attraverso le ombre e i fantasmi di ieri.

Polanski si e ci ricorda il significato del nostro compito di esseri umani, dei nostri doveri civili e del peso delle nostre scelte, dell’importanza fondamentale di agire e di non tacere, specialmente per chi possiede gli strumenti per farlo, e lo fa con un gioiello di cinema che scuote le coscienze e che riesce nell’obiettivo che poche opere riescono a portare a compimento: intrattenerci, educarci ed elevarci come individui, ricordandoci che non bisogna mai sottovalutare e dimenticare il male liquidandolo come passato quando è invece parte integrante del nostro presente.


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