Ogni cosa è illuminata è l’apologia della memoria e della sua funzione catartica; è un viaggio o una rigida ricerca attraverso la storia di ognuno di noi con tutte le sue contraddizioni; è l’affioramento del ricordo, il dolore della consapevolezza, l’utopia dell’indifferenza.
La sceneggiatura del film, scritta dallo stesso regista, Liev Schreiber, e tratta dal romanzo omonimo di Jonathan Sofran Foer, è un romantico richiamo ad una consapevolezza dell’esserci attraverso l’esercizio della memoria storica che deve riaffiorare senza retorica attraverso l’utilizzo, quasi feticista, dei documenti o delle fonti ( (lo storico è, appunto, un feticista dell’esserci e la sua funzione civile e sociale consta nell’acquisizione puntuale dei documenti tangibili atti alla testimonianza: esso deve fomentare costantemente la paura del dimenticare). Per fonti s’intende, ovviamente, anche la testimonianza umana di coloro che, in vita, possono deporre la loro esperienza perché esperita direttamente sulla loro pelle, da cui, compito dello storico studioso serio e non militante, è il loro accaparramento e catalogazione prima del processo che si consacra poi nell’esercizio storiografico (vedi la scena della memoria del nonno di Alex o quella della preziosa testimonianza della sorella di Augustine).
La mania del “collezionista” Jonathan, quella di raccogliere oggetti di famiglia che rappresentano, più o meno consapevolmente, collegamenti col passato, pezzetti di esistenza, ponti verso un trascorso rigorosamente presente ( fa dire la sceneggiatura alla sorella di Augustine, >) è forse il paradigma di una forte esigenza antropologica: quella di voler a tutti i costi fermare la storia attraverso, appunto, la memoria. Ogni cosa è dunque illuminata quando l’uomo sceglie di farsi guidare dalla sua storia, non di eluderla, forse per abbietti motivi politici. Evidentemente, l’argomento trattato dal regista, s’inserisce in quella temperie intellettuale che abbraccia ormai due secoli della nostra contemporaneità, dove il passato è stato più volte messo sotto i riflettori della discussione revisionista. La Memoria dunque, la shoa.
Il percorso non è senza incidenti e parte da una sensata ironia giocata sul filo dello scontro interculturale (non senza l’ausilio di coltissime citazioni letterarie e cinematografiche, Chaplin soprattutto) dove linguaggi diversi a contatto, ingenerano situazioni molto divertenti (vedi l’inquadratura del piatto con la patata lessa che verrà servita al vegetariano Jonathan) ma senza sacrificare l’utilizzo di dialoghi molto intelligenti. Si arriva così, con un sensibile cambio di registro, ad uno sviluppo della storia dove le tematiche sovra riportate si rappresentano in tutta la loro drammaticità. E' un ottimo film , da vedere in quanto tratta argomenti profondi ma in chiave ricettiva.
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