Nessuno di noi sceglie dove nascere, non a tutti è possibile cambiare il corso della propria vita, è solo pochi possono decidere dove morire. Oliver non ha deciso niente, voleva solo vivere, in fondo al suo cuore continuava ad essere accesa la fiamma dell'amore. Solo tra tanto male, non si lasciò contagiare, disarmato di fronte alla spregiudicatezza di un avido vecchio e tanti ragazzini avvezzi a una modello di vita senza valori e senza affetti, anche loro vittime della miseria. Oggi tale scene si possono vivere dove lo sfruttamento minorile è ancora una dura realtà, tanti Oliver girano per strade e vicoli per sfuggire alla rabbia delle loro vittime, tanti Oliver non hanno nessuna alternativa alla miseria se non lo sfruttamento e il carcere. Il mondo è pieno di Oliver, pertanto il film non denuncia una piaga sociale lontana e superata, ma una realtà viva e vera.
Quanta pazienza pare avere il piccolo Oliver Twist, mai sfiorato da dubbio o da paura autentica e fino alla fine autarchicamente rinserrato nel suo candore, segno d’elezione: la sua parabola è una variazione sul tema di Cenerentola. Orfano tra gli orfani, maltrattato dai suoi pari e ancor di più dai ricchi in cerca di rivalsa e di chiarezza di censo, eccolo che prende il fagottino e giunge a Londra. La città, allora più tentacolare di oggi, lo riceve tramite alcuni ottimi rappresentanti della criminalità organizzata, anzi organizzatissima: un’associazione con scopo di lucro e organigramma piramidale, presso cui il giovane Oliver potrà ottenere l’attenzione che merita e un valido tirocinio formativo, quel che si dice contatti e opportunità. Peccato che a questo punto i buoni propositi non bastino più, nelle società più civili vige la meritocrazia e Oliver è evidentemente poco dotato per il borseggio. Nonostante la stilizzazione del protagonista e una divisione “dantesca” più che manichea tra i personaggi (buoni, non-buoni, non-buoni con possibilità di riscatto), Polanski e Harwood riescono a rendere la vicenda interessante e paradossalmente attuale, così come lo sono la tematica dello sfruttamento dell’infanzia e quella più universale della ricerca di un proprio posto nel mondo. Segno che il racconto di Charles Dickens è ancora vivo e pulsante nonostante i rimproveri di conformismo vittoriano e ha certamente un senso richiamarlo in scena, anche dopo l’elegante, insuperato antecedente di David Lean (1948) e le numerose trasposizioni a seguire (tra cui un musical e un cartone di Walt Disney). Merito della capacità ironica dell’autore, merito dell’efficace semplicità dell’intreccio, sia come sia Polanski non ha avuto bisogno di aggiungere praticamente nulla. L’operazione è stata semmai di sottrazione (ad esempio i primi 9 anni di Oliver e l’agnizione finale, il bambino è in realtà nipote di Bronlow) mentre lo sforzo creativo più evidente è stato rivolto a illuminazione e fotografia. Leggermente fuori tono il finale riservato a Fagin (un ottimo Ben Kingsley), perdonato all’ultimo secondo da un Oliver piccolo Lord: evidenzia la recitazione un po’ fredda del protagonista e la trasposizione, dicevamo, volutamente piatta dello sceneggiatore. Che anche Roman Polanski risulti invisibile dietro la macchina da presa è un dato di fatto, né il regista pretende di aver fatto molto per esibire il tocco autoriale di un tempo: stabilito il brand, si è assestato su una logica di galleggiamento. Ma non fa mancare niente al film. Accanto alla visione, resta saldo il mestiere che gli consente di svolgere in pratica un lavoro su commissione con un ottimo risultato. Questa volta, il regista 70enne trasferisce lo sguardo e l’immedesimazione dal piano tecnico-registico a quello biografico: lui, fuggito dal ghetto di Varsavia, orfano, ci suggerisce di essere sempre stato, come Oliver, tetragono alla cattiva sorte.
Me l'avevano descritto come un capolavoro, ho faticato a tenere desta l'attenzione fino alla fine...
Non mi è piaciuto, storia abbastanza insulsa e phatos ridotto allo zero... sconsigliato.
E un film veramnete bello penso che chi abbia dato un voto sotto 6 non possa commentare altri film (tutto tranne noioso) definitemi voi la parola noiosa un film da capire drammatico non puo essere divertente come american pie ma affrontava i problemi dei bambini orfani e come venivano trattati in quel periodo belli i costumi e la scenografia.
Sinceramente non capisco le (non molte) critiche negative a questo film. Non è un capolavoro certo, ma non si può criticarlo perchè è lento o addirittura melenso. Viviamo in un momento storico in cui i film per avere successo non possono che seguire la triade sesso/violenza/effetti speciali. I temi di Dickens sono questi: amicizia, affetto, riconoscenza... Il fatto è che siamo assuefatti alla spazzatura odierna. Soprattutto diversi ragazzi sotto i 18 anni, parlano di lentezza essendo abituati a vedere le solite "americanate" con ritmi folli! Io consiglio questo film a chi ama Dickens (anche se i libri sono sempre meglio) e anche a chi non sopporta più il cinema di oggi.
Un'ultima nota per Dino di Milano (ha scritto nel 2005): a 30 anni io credo sia "opportuno" conoscere la differenza tra "a" articolo indeterminativo e "ha" coniugazione del verbo avere prima di fare critiche!!