originale nella trama e nell'esposizione, anche se in alcune parti l'ho trovato un pò noioso. I vari episodi , però, sono intrecciati bene tra di loro e alla fine l'opera dà una lezione di vita strabiliante: e cioè che per poter vivere bene bisognerebbe sempre tener presente la leggerezza del confine tra la vita reale e quella del sogno e riuscire ad impossessarsi -soprattutto nei momenti più difficili - della loro interscambialità.
...sogno, realtà ...cosa sono? se non il riverbero di un lampo di luce divina sulla superfice della nostra anima che il nostro amore (o la sua assenza)cattura, o riflette. Bravo Tim
Chi non ha capito il film non è proprio un genio, non c'è nulla da capire, è a mio giudizio il miglior film di Tim Burton; regia impeccabile, attori molto bravi (quasi tutti), fotografia ottima, questo film ha tutto. Lo consiglio a chiunque abbia un minimo di buon gusto.
Sono contento di trovare tanti spettatori che inneggiano alla fantasia e sono pronti a difenderla ed esaltarla,ma non basta paralre di fantasia per fare un film che possa farci sognore.Big Fish,a mio avviso,è questo: un film che parla troppo di fantasia e alla fine annoia.Si bravo il regista,gli attori,le luci,ma nulla di nuovo,nulla che possa suscitare tale entusiasmo.E la freddezza personale c'entra poco,non è detto che un film dove si parla di sogni e rapporti umani debba per forza commuovere o emozionare.Neppure che se a uno non piace T.Burton debba necessariamente amare solo la robaccia da cassetta,Burton è sì meglio,ma è un atore minore,bravo e niente altro,che si avvantaggia di un momento di mediocrità generale,dove un regista con un minimo di talento è scambiato x un genio.Inoltre molti di questi entusiastici x B.fish chiedono l'Oscar che è un premio che va non a chi è geniale o il migliore,ma un premio che solitamente va a questi film da cassetta appunto,mega bombati dalle Tv e con contenuto pari a zero.
Questo è un film modesto e niente più.
Big fish
il tema del rapporto tra invenzione e realtà, tra vita raccontata e vita vissuta, pone alcune domande interessanti. fino a che punto chi inventa storie si identifica con esse, tanto che la sua vita diventa quelle avventure, quel sopramondo, quella leggerezza che l’immaginario porta con sé? e quanto questa mescolanza può essere difficile da comprendere per chi non sa che contorni dare a figure che vorrebbe più nitide e leggibili, vedi un figlio nei confronti del padre? l’affabulatore è in genere amato da tutti quelli a cui regala il suo sopramondo, ma può diventare persona sfuggente per chi gli è più vicino. questo lo spunto di partenza di big fish, ultima opera di tim burton, che, si perdoni il gioco di parole, non riesce ad essere né carne né... pesce. negli elementi fantastici il regista porta un po’ del suo gusto gotico, strizza l’occhio al signore degli anelli, sparge a piene mani fantasticherie caramellose dell’americano medio, imita malamente con qualche ricamo tutto esterno il mondo felliniano. infatti, lo si ami o meno, è innegabile che il maestro italiano trova le sue punte più alte nel rappresentare sogni percorsi da brividi di realtà e molto umani, anche se non appartengono a questo mondo. per lui è il reale che diventa favolisticamente giocoso e malinconico, per burton l’immaginazione viene prima e non si salda con la vita se non in modo artificioso e superficiale. per cui alla fine di questo film rimangono impresse la prestazione degli attori, veramente bravi, che danno nerbo e simpatia a molte parti del racconto ed alcune invenzioni degne del regista di edward mani di forbice. ma nel complesso questo mondo di gemelle siamesi, lupi mannari, sirene giganti non riesce ad affascinare, anche se lo spettatore odierno sente un gran bisogno di autori che non documentino solo angosce e dolori, ma suggeriscano anche vie di fuga, sogni liberatori.
veniamo comunque alla trama. le favole di edward bloom (a. finney e mac gregor), che egli continuamente costruisce intorno a episodi della sua vita, in realtà del tutto normali o addirittura banali, lo hanno fatto crescere in simpatia e popolarità presso i suoi concittadini e hanno rafforzato il legame con sua moglie sandra (jessica lange), quella che s'incontra una sola volta, da cui ha avuto il figlio will, ormai adulto e con una sua vita familiare autonoma. la malattia di edoard offre al figlio la possibilità di rivivere all'indietro la vita del padre, inestricabile dalle sue storie e alla fine lo porta a comprendere come non ci sia bisogno di scindere fantasia e realtà, che anzi l'una e l'altra servono egregiamente per capire meglio sentimenti e persone. sullo sfondo che per diventare grandi bisogna abbandonare i laghi piccoli, come il pesce del titolo.