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Eden

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Mah

(4/10) Voto 4di 10

Ogni scena dura almeno 60 secondi, spesso con telecamera e attori perfettamente fermi. E non è che ci sia una grande musica a riempire questa stasi. Se qualcuno vuole vedere/capire qualcosa degli ebrei in palestina in quel periodo storico si rivolga da qualche altra parte. Sotto sotto mi sembra di poter dire, forse con troppa cattiveria, che questa "staticità" si traduce in economia: scene molto lunghe, vuole dire molte meno scene. E quindi minori costi



Gianni, 33 anni, Milano (MI).




Forza sabbia, cresci.

(6/10) Voto 6di 10

Un film di una stabilità unica, che Gitai sa dare alla perfezione, il film Eden è molto descrittivo. Nella prima guerra mondiale, o fuori la prima guerra mondiale, gli ebrei che mentre la radio parla di occupazione dell'Europa, gli ebrei innominabili, non vengono toccati dalla storia della radio, della comunicazione verbale, come succede quando all'inizio il padre parla col fratello di Samantha, nel senso che quando discutono del futuro nell'ideologia passata, loro stanno nella neve, immersi sia dentro che fuori, mentre l'estero o la terra nativa promessa di solo deserto è l'essere in cui non c'è il destino per un destino. Infatti loro sono sommersi da tutte le parti, il muro in cui la telecamera sovrasta il paesaggio come l'occhio che limita, sia sopra che sotto. Il concetto fondamentale è la parità, l'ordine della stasi, del movimento che non si può spostare, forse immobilizzato. Quando il bibliotecario-"lettera"to dice che deve mettere i libri apposto, il dare, il prestare il libro, lettereatura che è la stasi del concetto , il movimento della carta del concetto, quella tedesca specialmente, lasciata dallo stesso mondo per collocare la propria famiglia nella paura, un libro, un progetto che non va avanti. Leggere una razza che scrive, stampa che lascia inchiostro e scivola via, non più statica ma ferma. La macchina da scrivere che non rilascia niente, da un movimento e poi si ritrae, il modello dell'uguaglianza, la terra che non si muove, tutto quello che si ferma, muove la sabbia, Israele. Quando il figlio della figura del racconto che parla dopo o prima che parlino gli altri, vede la figlia nel figlio, solo linguaggio, non si vede una scritta di ebraico in tutto il film, se non alla fine, tutto torna a essere come era.Gli scaffali della casa di Samantha che sono pieni di libri e scatole di progetti, le parole dei libri, progetti che fanno guerra ai libri, derivati dai libri, piccoli, mappe di guerra lontane lasciate la, per essere poi bruciati, scartati da interni abitabili da vite che sono dimenticate dalla stessa terra perchè sono elementi di essa, lo stesso paesaggio.La scena in cui la bibliotecaria prenderà una bottiglia e gli infilerà una straccio è molto bella. Il contenuto vuoto che non può uscire, come immigrati che non hanno la tovaglia per chiudere un passato. Quando il fratello di Samantha si ucciderà allora strozzandosi, la cinghia che sembra un libro, il verbo che porta l'ideale, solo esseri, libri che soffiano sabbia su libri, spressori che non si vedono, corpi, camere senza vita che sembrano vive, seconda guerra mondiale che stacca gli ebrei nelle vittime perchè ne "regala" come pensiero. La scena finale è la più bella. Grande film, dove niente è scritto tranne il "finale".



Simone, 19 anni, Roma.





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