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Autore Stessa storia: scriviamo (4)
sloberi

Reg.: 05 Feb 2003
Messaggi: 15093
Da: San Polo d'Enza (RE)
Inviato: 07-05-2008 10:29  
Incipit scelto da Anthares:
"Il rampicante stava mettendo le prime foglie; sotto, il sole già caldo batteva sulle piastrelle sbrecciate del pavimento. Ai vecchi tavoli, rovinati dal tempo, erano seduti solo pochi clienti."

Massimo battute: 5500

Si può scrivere da oggi fino a Mercoledì 14 maggio.
Si può votare da Giovedì 15 a mercoledì 21

Si ricorda che è possibile autovotarsi, ma i voti poi sono resi pubblici, quindi non sarà il massimo del buon gusto.
Per votare inviatemi un pvt nelle date sopra indicate con 3 nomi in ordine di preferenza (riceveranno rispettivamente 10 6 e 4 punti).
Buon gioco

_________________
E' ok per me!

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anthares

Reg.: 21 Set 2004
Messaggi: 14230
Da: Trento (TN)
Inviato: 08-05-2008 13:35  
IL PRIMO INCONTRO

Il rampicante stava mettendo le prime foglie; sotto, il sole già caldo batteva sulle piastrelle sbrecciate del pavimento. Ai vecchi tavoli, rovinati dal tempo, erano seduti solo pochi clienti.. automobilisti di passaggio e camionisti.
Prima d’ora non era mai entrata in quel bar, e si domandò come le era venuto in mente di dare appuntamento a Valerio proprio in un locale così squallido. D’altra parte, quando aveva deciso di cedere alle sue insistenti richieste di poterla rivedere almeno una volta, aveva pensato di scegliere un posto che fosse vicino all’uscita dell’autostrada, ma anche un po’ appartato, e quello era l’unico bar di cui si era ricordata il nome.
Era in discreto anticipo sull’ora dell’appuntamento, lui non era ancora arrivato, perciò scelse di aspettarlo seduta ad un tavolino all’aperto; quando la cameriera le portò il caffè ristretto che aveva ordinato rimescolò adagio lo zucchero con il cucchiaino, pensando alla prima volta che l’aveva incontrato.

Si erano conosciuti all’inizio dell’anno precedente, frequentando una delle tante chat su internet e, per parecchi mesi, si erano incontrati solo di notte, come amanti clandestini, ciascuno chiuso nella propria stanza davanti al monitor, con le tastiere trasformate in due piccoli Cupido. Erano poi arrivati gli scambi di fotografie e dei numeri di cellulare a cui, quando le circostanze erano state finalmente favorevoli, aveva fatto seguito il primo appuntamento per incontrarsi nel mondo reale, anche se erano ben consapevoli di essere entrambi impegnati, con storie importanti nelle città dove vivevano.
Quella volta lui era arrivato in treno, e anche allora lo aveva aspettato dentro un piccolo bar nei pressi della stazione, bevendo il suo solito caffè ristretto e mescolando piano lo zucchero, come se quello fosse un rituale necessario per rilassarsi e tenere a bada l’ansia causata da quel primo incontro.

“ Simona ”

Nei suoi trent’anni di vita l’avevano chiamata in molti, ed il suono del proprio nome lo conosceva bene, ma stavolta c’era qualcosa di diverso, ed era la voce di lui che lo pronunciava:

“ Simona ”

Nel preciso istante in cui l’aveva sentito, e aveva sollevato gli occhi dalla tazzina di caffè, aveva capito quello che sarebbe successo tra loro, e che niente sarebbe più stato uguale a prima.
In quella mattina di settembre, nel piccolo bar vicino alla stazione, i loro sguardi si erano incontrati e, come per magia, si era ritrovata all’improvviso con tutto il suo piccolo.. tranquillo mondo.. girato sottosopra.
Il suo corpo aveva avvertito subito il desiderio impellente di accoglierlo dentro di sé, in una frazione di secondo erano franate tutte le sue difese, non le era mai successo di provare sensazioni così intense, prima di quel giorno.
Erano andati in un hotel, e tra loro era stato tutto naturale e bello, senza imbarazzi e pudori, come se si fossero conosciuti ed amati da sempre.

A quel primo appuntamento ne erano poi seguiti altri ma, col trascorrere del tempo, si era resa conto che incontrare Valerio non le donava più le stesse sensazioni, la voce che era riuscita a scatenarle dentro quella splendida magia si era, un poco alla volta, tramutata in un’arma affilata che lui usava troppo spesso per colpire e ferire. Bastava un futile motivo per scatenare un litigio e far riemergere quei sensi di colpa che ormai entrambi si portavano appresso come un bagaglio ingombrante, la stanchezza causata dalle difficoltà di vivere quella relazione si faceva sentire.

“Come ci si sente quando finisce un amore? ”
si chiese Simona, giocherellando con il cellulare appoggiato sul tavolino davanti a lei, perché non sapeva più come ingannare il tempo dell’attesa; il caffè l’aveva bevuto da parecchio, e non le andava di ordinarne un altro, temeva di ritrovarsi ancora più tesa e nervosa.
“ Come se in questo periodo non lo fossi già anche troppo, nervosa.”

Finalmente, dopo un’altra interminabile mezz’ora,realizzò che era da stupida restare ancora seduta nel giardinetto di quel triste bar, l’ora dell’incontro era passata da un pezzo, e il cellulare rimaneva inesorabilmente muto. Era meglio pagare il caffè ed andarsene.

Mentre camminava veloce verso il parcheggio, dove aveva lasciato la macchina, si accorse di sentire la necessità di piangere, ma di avere anche, nonostante tutto, una gran voglia di concedersi un bel sospiro di sollievo.
Quella storia d’amore era finita, doverne prendere atto in modo così drastico le causava dolore e tanta malinconia, ma era del tutto inutile piangerci sopra.
Era invece indispensabile dimenticare in fretta quello che era successo, rimettere insieme i pezzettini del suo cuore sparpagliati qua e là, e poi riorganizzare di nuovo il suo piccolo mondo.

Non era un’impresa facile, ma ci sarebbe riuscita.

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joeblack

Reg.: 23 Set 2004
Messaggi: 12354
Da: Roma (RM)
Inviato: 08-05-2008 14:58  
L'ultimo incontro

Il rampicante stava mettendo le prime foglie; sotto, il sole già caldo batteva sulle piastrelle sbrecciate del pavimento. Ai vecchi tavoli, rovinati dal tempo, erano seduti solo pochi clienti.
Si guardò intorno, poi ancora ed un'altra volta.. ma niente, lei non c'era. Solo visi sconosciuti, sguardi persi nel vuoto e spenti dal sonno e dall'alcool. Sperava di trovarla lì, in quel momento era la cosa che più desiderava e forse non sapeva neanche il perchè.. era successo tutto così in fretta, era ancora scosso, le sue scarpe macchiate di sangue e nella sua mente risuonavano quelle parole a malapena sussurrate 'Ti prego trovala e dille che la amo". Erano trascorsi solo 30 minuti, un'ora forse, ma per lui il tempo si era fermato a quell'istante... il boato, il rumore assordante di ruote e freni sull'asfalto, vetri e sangue dappertutto ed il corpo di quell'uomo scaraventato a decine di metri di distanza sulla corsia di emergenza .. davanti a lui la strada era deserta, dietro gente timorosa cominciava a scendere dalle macchine incolonnate... lui era steso lì, per terra, avvolto in un lago di sangue, era ancora cosciente, Dio solo sa come ... mi vede avvicinare con la moto, mi tende la mano e dalla sua bocca escono suoni incomprensibili alternati a colpi di tosse. Mi fermo, lascio cadere la moto e corro verso lui... non so chi mi abbia dato la forza, se solo penso quando mio padre sin da piccolo mi rimproverava quando frignavo ad ogni piccola ferita che mi procuravo giocando con gli amici nel cortile di casa, "sei una femminuccia" mi diceva sempre... ed ora, ora non so chi c'era dietro a sorreggermi quando mi sono chinato per raccogliere la foto che stringeva in una mano... dietro il nome di un bar, al km 10 dopo il casello per milano, davanti il viso di una donna, bellissima, e in un angolo un nome .. Simona.

Ti prego, trovala e dille che la amo...

[ Questo messaggio è stato modificato da: joeblack il 08-05-2008 alle 15:00 ]

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utopia


Reg.: 29 Mag 2004
Messaggi: 14557
Da: Smaramaust (NA)
Inviato: 08-05-2008 21:41  
Laila

Il rampicante stava mettendo le prime foglie; sotto, il sole già caldo batteva sulle piastrelle sbrecciate del pavimento. Ai vecchi tavoli, rovinati dal tempo, erano seduti solo pochi clienti.
Nora se ne stava sotto il pergolato con le gambe incrociate ed un cappello di paglia calato sul viso; osservava i bimbi rincorrersi in piazza e si ricordava della sua infanzia, di quanto avesse significato per lei quel posto, tempo fa. Non era sicura che rappresentasse ancora qualcosa, adesso. Posò un’ultima volta le labbra sulla cannuccia e tirò su l’ultimo sorso di thè alla pesca, dopodiché si incamminò nel vecchio vicolo appena dietro l’angolo. Non aveva avvisato nessuno del suo ritorno, non le andava di vedere gente; era per questo che era tornata ad agosto. Ciononostante, aveva un irrefrenabile desiderio di vedere gli amici di sempre, ma ogni sentimentalismo era impedito dall’aver tagliato i ponti con tutti. Calpestava il selciato con fare frettoloso e malinconico, perché aveva continuamente voglia di fermarsi, di imprimersi nella mente tutti i cambiamenti che c’erano stati durante la sua assenza. La sua vecchia casa non c’era più: ora al civico 54 c’era un negozio di giocattoli. Si fermò ad osservare la vetrina colorata e vide il suo riflesso: la bimba che era 20 anni fa l’aveva abbandonata. Il suo giardino con l’altalena, il pergolato sotto il quale aveva dato il primo bacio, il comignolo impregnato del sapore dell'inverno… Tutto spazzato via. Lei iniziava a dimenticare e avrebbe tanto voluto toccare il cancelletto verde e sentire il profumo delle rose che coltivava suo padre. Era l’una: le strade iniziavano a svuotarsi. Continuava a camminare, iniziando però ad avvertire una certa fiacchezza nelle gambe. Ma non voleva fermarsi, aveva troppo bisogno di fare quei passi. Sentì un giro di chitarra: para-para-parapà… ‘Laila’,Clapton. Ebbe un attimo di esitazione: distrattamente, era arrivata sotto casa di Riccardo. Non potè fare a meno di mettersi con le spalle al muro ed ascoltare la melodia che proveniva dal secondo piano: il silenzio pomeridiano veniva rotto dalla chitarra e dalla voce roca dell'amico. Chiuse gli occhi: le sembrò davvero surreale quella coincidenza e per un attimo pensò di essersela immaginata. Si portò la mano destra alla gola ed iniziò a giocherellare col suo ciondolo, mentre con le labbra mezze serrate, e senza emettere suono alcuno, accompagnava le parole del pezzo. Quando la musica cessò, sbarrò gli occhi, come se si fosse svegliata precipitosamente e, terrorizzata all’idea di poter incontrare qualcuno, con passo celere si allontanò.
Trascorse il pomeriggio a dormire in albergo, perchè stremata dall viaggio, e quando si svegliò si fece una doccia, si infilò un vestitino a fiori e ,calandosi come meglio poteva il cappello sulla testa, uscì di nuovo. Tornò al bar in piazza e si sedette di nuovo al tavolo sotto al rampicante. Osservava le luci lontane della collina e le venne da piangere. Deglutì amaramente, appoggiò la testa pesante fra le mani incrociate e, fissando il vuoto, tenne gli occhi spalancati per un po’. Riccardo, evidentemente, era l’unico rimasto in paese per le vacanze. Se lei avesse continuato a scappare, non si sarebbero mai incontrati. Avrebbe voluto vederlo, parlarci, rendersi conto, attraverso uno di loro, di come fosse cambiata anche lei. No, non era un film: se non l’avesse cercato, se ne sarebbe andata il giorno dopo con una sensazione di vuoto enorme.
Andò sotto casa sua ed aspettò sul muretto di fronte al piccolo portone del condominio. Non aveva il coraggio di bussare. Dopo un po’, le si avvicinò un gattino nero che iniziò a strusciarsi contro le sue gambe nude e si sentì meno sola. Dopo mezz’ora, si aprì il portone: era Riccardo, con il sacchetto dell’immondizia. Sacchetto che gli cadde di mano non appena alzò lo sguardo. L’avrebbe riconosciuta anche se si fosse presentata con una maschera. Lei balzò in piedi.
“Riccardo… Io… Mi spiace non essermi fatta sentire…”
Lui le si precipitò addosso e la strinse con tutta la forza che aveva. Nora rimase impietrita: le lacrime le sgorgavano sul viso senza riuscire a fermarsi, stava piangendo tutti i bocconi amari che s’era tenuta dentro. Stettero così per un po’; lui non diceva una parola nonostante lei volesse inondarlo chiassosamente coi suoi pensieri. Poi: “Mi sei mancata…” e presole il viso fra le mani, dopo cinque anni, toccò quelle labbra con le sue. Nora era come stordita, si sentiva praticamente il cuore batterle negli slip. Voleva chiedere, voleva sapere. Ma un “Andiamo sopra” la ammutolì. Ripercorse la rampa di scale, quei gradini alti e scheggiati che aveva salito tante volte, tanti anni fa, in estati come quelle di adesso, con le mani sporche di terra e le ginocchia sbucciate. Aperta la porta, il vestito a fiori volò leggero sul pavimento, accanto a loro che non erano andati oltre l’ingresso.
Quando albeggiò, si svegliò con il profumo del caffè che aveva invaso tutta la casa; andò in cucina e trovò Riccardo sulla sedia, con la chitarra. Proprio come lo aveva sempre ricordato.
“Buongiorno…”, le disse con un sorriso.
Lei non aprì bocca, gli si accucciò solo accanto lì, per terra.
“Suoneresti qualcosa per me?”
“Laila… Vero?”
“Sì… Ti prego, fammi rivivere quella sera, la mia festa di 18 anni, quando eravamo tutti assieme…”
Giro di chitarra: para-para-parapà...
Riccardo staccò il plettro dalle corde.
“Mi dici perché sei sparita?”
Lei fece un respiro profondo.
“Sono malata. Sto per morire.”

_________________
Tutto dipende da dove vuoi andare... Non importa che strada prendi!

Goodbye, sadness... I'm dreaming while you sleep away

[ Questo messaggio è stato modificato da: utopia il 08-05-2008 alle 23:35 ]

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liliangish

Reg.: 23 Giu 2002
Messaggi: 10879
Da: Matera (MT)
Inviato: 14-05-2008 20:08  
You can’t change your fate.

Il rampicante stava mettendo le prime foglie; sotto, il sole già caldo batteva sulle piastrelle sbrecciate del pavimento. Ai vecchi tavoli, rovinati dal tempo, erano seduti solo pochi clienti.
In un angolo del patio, in disparte, tre donne e un uomo bevevano in silenzio la loro birra. Erano arrivati alla spicciolata, come se si fossero dati appuntamento lì: prima l’uomo, alto, moro, con un aspetto scomposto. Poi, una piccola donna asiatica con una sacca da golf quasi più grande di lei. Quindi una bella donna di colore dai movimenti sinuosi e infine una splendida bionda di mezza età con un enorme paio d’occhiali che le nascondevano il volto.Tutti sinistramente vestiti di nero.
La bionda parlò. “She must suffer to her last breath.” La donna di colore annuì. Gli altri due tacquero, impassibili.
Parlavano tra loro a bassa voce e sembravano in attesa. D’improvviso il cellulare dell’uomo squillò. Lui rispose e mormorò soltanto: “That’s ok.” Richiuse il cellulare con un colpo secco.
Una Qvale Mangusta bianca si era appena fermata a pochi metri dal bar. Ne scesero due donne. Quella alla guida, piccola e bruna, dall’aspetto si sarebbe detta messicana.
L’altra, alta e biondissima, era vestita da sposa. Ed era vistosamente incinta.
Ricordò le parole che la bruna le aveva detto solo mezz’ora prima: “They are coming, and they are coming to kill you. And unless you accept my assistance, I have no doubt they will succeded”.Guardò nello spiazzo davanti al locale, vide il tavolo all’angolo, i quattro loschi individui vestiti di nero, e capì che aveva fatto bene a crederle. Non li vedeva tutti insieme da molto tempo. Avevano un solo nemico così temibile da costringerli a riunirsi: lei stessa.
“Are you sure you want to do this?” le chiese la sua amica.
“Those people deserve to die, Maia.” Rispose.
Maia annuì. Già si aspettava quella risposta.
Avanzarono a passo spedito verso i tavoli del bar. Tutti si voltarono a guardarle, eccetto i quattro in nero. Fu solo per questo che riuscirono a sfoderare le pistole e a sparare per prime.
La donna di colore cadde con il volto riverso sul tavolo, colpita da un proiettile in piena nuca. L’altro proiettile, sparato dalla sposa, colpì la bionda alla gola. Il sangue dipinse una macabro disegno astratto sul muro imbiancato a calce. Gli occhiali le caddero rivelando una benda nera sull’occhio destro.
L’uomo e la donna orientale si alzarono di scatto, le pistole in mano, e cominciarono a sparare. Ma al primo colpo sparato da Maia gli avventori, presi dal panico, s’erano dati ad una disordinata fuga attraverso l’angusto spazio del patio, e nella confusione che ne seguì i due spararono alla cieca, fino a scaricare le pistole, senza riuscire a colpire Maia e Arlene che nel frattempo si erano riparate dietro le fioriere di cemento che delimitavano il patio.
Ci fu un attimo di pausa quando i due sicari si fermarono per ricaricare le pistole. Allora dal fumo emerse diabolica e veloce una figura bianca, con un’enorme spada in mano. La donna orientale fece in tempo a mettersi in guardia, sfoderando la katana nascosta dentro la sacca da golf. L’uomo stava per fare fuoco quando sentì la gelida canna di una pistola sulla tempia. La piccola Maia gli sussurrò con voce melliflua: “Wait, man… Enjoy the show.”
Fu un combattimento breve. L’orientale pensava che Arlene, impacciata dall’abito e indebolita dalla gravidanza, sarebbe stata un avversario facile da battere. Si sbagliava. Ci sono molte cose temibili in natura, ma nessuna lo è quanto una madre che difenda i propri cuccioli. La spada della sposa saettava come fosse viva. E morse come un serpente. Al collo. Prima che potesse accorgersene, la donna orientale aveva perduto la testa. Staccata di netto, rotolò ai piedi dell’uomo, che rabbrividì, lasciando cadere la pistola. “Wrong brother, you hateful bitch.” Borbottò tra i denti, attirando l’attenzione di Arlene.
Lei gli si avvicinò, stando ben attenta a non toccarsi il vestito con le mani imbrattate di sangue, tremanti per l’adrenalina del combattimento. “So, where’s the right brother?” gli chiese con aria di sfida.
L’uomo sorrise, sardonico, sussurrando: “So sorry, baby… You’re losing your time, while he is killing your family…”
Furono le sue ultime parole. Maia premette il grilletto. Il sangue della ferita le schizzò negli occhi mentre l’uomo cadeva sul pavimento con un tonfo.
Non c’era tempo da perdere. Balzarono in macchina e la vecchia Qvale saettò a tutto gas per le strade di El Paso. Maia non era mai stata una brava guidatrice e fu l’unico momento in quell’avventura in cui rimpianse l’assenza di Aigal. Forse, se ci fosse stato lui al volante, sarebbero arrivate in tempo. Invece, quando la macchina frenò stridendo sul sagrato della chiesa, un lugubre silenzio disse loro che quel che temevano era accaduto.
Arlene non si stupì dello spettacolo che l’accolse.
Sette cadaveri giacevano sul pavimento. Lo sposo, il reverendo, sua moglie, le altre tre amiche che avrebbero assistito alla cerimonia, persino il pianista di colore. Un uomo solo poteva averlo fatto. L’uomo che lei amava.
Maia, guardando quel desolante massacro, ripensò quanto fosse inutile cercare di cambiare il destino. E come a volte non basti tornare indietro nel tempo per evitare il male.
“Arlene…” mormorò
“Stop call me with that stupid name!”
La sposa si voltò verso di lei, gli occhi arrossati, le labbra tremanti. “My name is Beatrix. And now, I’m gonna kill him. I'm gonna Kill Bill.”


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...You could be the next.

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Chenoa

Reg.: 16 Mag 2004
Messaggi: 11104
Da: Vittorio Veneto (TV)
Inviato: 14-05-2008 23:19  
Ottuagenari

Il rampicante stava mettendo le prime foglie; sotto, il sole già caldo batteva sulle piastrelle sbrecciate del pavimento. Ai vecchi tavoli, rovinati dal tempo, erano seduti solo pochi clienti.
Forse non era propriamente corretto chiamarli clienti. Quel gruppetto di vecchietti era sorto assieme al locale stesso, molti anni prima. Ora sembravano far parte dello scarno arredamento, come si fossero piano piano mimetizzati con l’ambiente. Il legno poroso e consunto ricordava la loro pelle raggrinzita e scura, dove sul viso formava solchi profondi ad ogni cambio di espressione, in cui gli unici punti fermi erano le piccole biglie vitree degli occhi.
Si conoscevano tutti. Si assomigliavano tutti. Se si provava a osservarli da una certa distanza difficilmente si riusciva a distinguerli l’uno con l’altro. La sera, illuminati dalla flebile luce del lampadario ormai logoro, parevano una massa informe di ombre senza nome.
Nemmeno la luce del sole dava però una buona impressione di quel posto. L’afa di agosto quel giorno si sentiva in ogni respiro, in ogni goccia di sudore che scivolava dalle tempie.
Quando Luca lo vide sorgere come un miraggio dalla campagna desolata, non credette subito ai suoi occhi: l’aria rarefatta, tremolante e torbida soffocava il paesaggio e gli annebbiava la vista. Percorse la tortuosa stradina stando attento a non scivolare sui sassi, nonostante le gambe lo reggessero a malapena, dopo la lunga camminata. Aveva lasciato l’auto in panne sul ciglio della strada, a più di dieci chilometri di distanza, senza che un’anima si facesse viva per tutta la mattinata. Ora che finalmente sembrava aver trovato una presenza umana in quella landa deserta, non poteva non raccogliere le ultime forze, ignorando momentaneamente il caldo e la fatica che sentiva urlare da ogni muscolo.

“Scopa”, esclamò uno dei vecchi lanciando le carte da gioco sul tavolo. Un mormorio si levò dagli altri clienti, pigramente. Uno di loro prese le carte ormai sbiadite e le mescolò con calma. “A questo punto mi offri un altro giro”, disse, la voce arrochita da troppe sigarette.
Il vincitore tirò fuori dal taschino della camicia un fazzoletto e si asciugò il collo unto e umido, annuendo con un sorriso sdentato. Fece un cenno all’oste, che arrivò poco dopo con alcuni bicchieri di vino rosso annacquato.
Fu in quel momento che entrò Luca.

Persino il ronzio delle mosche sembrò cessare per un attimo.
I bicchieri immobili a mezz’aria, le teste voltate all’improvviso verso l’uscio, da cui pendevano delle frange in ciniglia marrone, impolverate e tremendamente bollenti a causa dei raggi del sole che vi si sbattevano contro.
“Buongiorno!”, salutò Luca educatamente.
“Buongiorno.” rispose l’oste tornato dietro il bancone.
Non c’era alcuna cordialità nella sua voce, piuttosto un fastidio nel vedere quell’improvviso ospite sgradito. Si rimescolò lo stuzzicadenti in bocca, parzialmente nascosto sotto i folti baffi neri e lo fissò con fare circospetto. Gli altri clienti continuarono a osservare la scena senza proferir parola, chi a braccia conserte, chi con lo sguardo torvo di chi non apprezza le interruzioni.
Luca deglutì in silenzio, percependo subito la tensione della situazione. Andarsene via di colpo avrebbe potuto indispettire quei signori ancor più di quanto già non stava facendo con la sua presenza, così preferì parlare tutto d’un fiato. Si guardò attorno e poi si rivolse all’oste: “Mi servirebbe una mano. C’è qualche meccanico da queste parti? Ho un problema con l’auto e…” non riuscì a terminare la frase.
Un brivido freddo gli percorse inaspettatamente la schiena, come se il sole avesse smesso di illuminare il cielo da un momento all’altro, nonostante fuori la luce stesse filtrando come sempre. Si girò istintivamente verso la piccola finestra alla sua destra e allungò una mano, per scaldarsi, ma non sentì più alcun calore. Non fece neanche in tempo a voltarsi nuovamente verso gli altri, che si stavano già avvicinando a lui, tutti insieme.
Le unghie lunghe e giallognole protese, le fauci aperte in un ghigno animale, emettendo gemiti innaturali, provenienti direttamente dall’inferno. Luca indietreggiò terrorizzato, cacciando quei mostri come poteva, ma uno di loro gli addentò un braccio, strappandone un pezzo. La vista del sangue zampillante aizzò i vecchi, rendendo le loro grida più acute e i loro graffi più profondi. Urlando dal dolore, Luca sentì finalmente la porta alle sue spalle, ma le frange di cui era composta si erano trasformate in un intricato groviglio pungente, che non gli permetteva nemmeno di respirare e gli stritolava il corpo a poco a poco, come animate.
Uno schizzo di sangue colpì il muro, colando lentamente.

[ Questo messaggio è stato modificato da: Chenoa il 15-05-2008 alle 09:48 ]

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