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Autore Stessa storia: scriviamo (2) Si vota fino a Martedì compreso
gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
Messaggi: 15032
Da: Roma (RM)
Inviato: 29-02-2008 14:07  
incipit scelto da Sandrix
"Quando si svegliò, quella mattina, gli sembrava che la testa stesse per esplodergli, e fece fatica anche a guardarsi intorno."

Battute max, spazi inclusi 5500
Da scrivere entro domenica 9 (compreso)
Si vota da Lunedì 10 a Martedì 11

Qui postate solo i racconti, nel topic generale precedente tutto il resto

_________________
Vendo divano letto, riletto e anche un po' sottolineato

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eltonjohn

Reg.: 15 Dic 2006
Messaggi: 9472
Da: novafeltria (PS)
Inviato: 01-03-2008 14:42  
CATIOARA

Quando si svegliò,quella mattina,gli sembrava che la testa stesse per esplodergli e fece fatica anche a guardarsi intorno, dopo una notte brava come quella era praticamente normale si disse, ma il dolore alla testa era davvero qualcosa di più di una semplice cefalea post libagione, così come non era affatto normale quel grumo di sangue rappreso misto a capelli poco al di sopra dell'orecchio sinistro.
Cercò di rimettersi in piedi a fatica appoggiandosi a un tavolino ribaltato,un milione di lucciole impazzite svolazzavano nel suo campo visivo impedendogli per qualche buon minuto una visione reale di tutto ciò che c'era intorno, ma non tardò molto a mettere a fuoco la scena desolante di un salotto semi devastato, bottiglie vuote, i cuscini del divano sventrati, gli amatissimi CD sparsi scelleratamente sul pavimento alcuni dei quali irrimediabilmente rovinati.
Ogni singolo cassetto e sportello era aperto, se una volta c'era da qualche parte un qualche oggetto di valore ora sembrava essere sparito, Ma che cazzo....Si avviò barcollando verso il bagno e per poco non scivolò su una felpa rossa lasciata per terra sul pavimento di marmo, si chinò per raccoglierla avvertendo una fitta lancinante alla testa che lo costrinse a rimanere accovacciato ancora per qualche minuto prima di rialzarsi.
Già quella felpa rossa, all'improvviso molte cose riemergevano da una memoria momentaneamente andata in tilt, la brunetta dagli occhi grigi che la indossava, l'amico di lei più o meno della stessa età con quell'assurdo taglio di capelli, la loro aria così spaesata e timorosa dentro quel locale dove tutti sembravano a loro agio non curanti della loro presenza, quell'accento dell'est europeo (rumeno? Moldavo?), le gambe di lei generosamente esposte sotto quella dozzinale minigonna a scacchi che indossava.Ora sembrava riemergere tutto.
Rivedeva ancora lo sguardo della ragazza fisso su di se,il suo timido sorriso di rimando,l'aria imbambolata e anonima dell'amico preoccupato solo del boccale di birra che teneva in mano, preda facile.
Visto che insisteva così tanto con le sue occhiate, visto che pur continuando a lumarle le cosce ben tornite lei non dimostrava affatto alcun imbarazzo ma,al contario,una compiacenza sempre più crescente,perche no? Perchè non tentare un qualche approccio e chi se ne frega dell'amico dall'aria ottusa e sciatta, no non può essere il fidanzato (non almeno per i più elevati standard di molte italiche fanciulle) al massimo un cugino.
Ricordò tutto senza trascurare nulla,l'invito ai due per un altro boccale,l'immediato ed entusiastico consenso,la rapida formalità delle reciproche presentazioni, il nome di lei "Catioara",il nome di lui Boh?!
Dicevano di essere di Bucarest e di essere in città perchè invitati a trascorrere una settimana di vacanza presso parenti immigrati in Italia,parlava solo lei,lui sembrava proprio confermarsi per l'essere ottuso e insignificante che aveva pensato fosse tale fin dall'inizio.
Non fu difficile invitarli a casa, caricarli dentro il vistoso suv tedesco dentro uno dei quali probabilmente non erano mai entrati in vita loro, non fu difficile mettere a loro disposizione ogni sorta di bevanda alcolica che aveva in casa, sperando soprattutto che l'insulso "cugino" di lei ne facesse abbondante uso in modo da lasciargli campo libero al massimo e così,in effetti,sembravano procedere le cose.
Ricordava ancora il melenso CD di Barry White messo su per l'occasione, le mani strette sui teneri fianchi di lei mentre ballavano, le sue risatine, la non curanza con cui lo lasciava palpeggiare quei glutei sodi come due Wilson,il sapore dolciastro della sua lingua in bocca,Wow! Era praticamente fatta, l'amichetto era steso sul divano,rincoglionito come una foca dormiente sulla spiaggia, lei cominciava già a togliersi i vestiti, che altro di più.....
Tutti i ricordi s'interrompevano li, per il resto solo la dolorosa constatazione di un appartamento devastato e svaligiato, una ferita lacero contusa alla testa e i frammenti di una bottiglia di prezioso Glenlivet per terra, che con umiliante perspicacia comprese essere stata usata per colpirlo in pieno capo.
Che fare ora? Chi affrontare per prima la Benemerita o la moglie in vacanza? Era possibile, ma soprattutto era giusto, sentirsi così stronzi?

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Perchè non gli hai sparato? Perchè?..Perchè è un mio amico

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Chenoa

Reg.: 16 Mag 2004
Messaggi: 11104
Da: Vittorio Veneto (TV)
Inviato: 01-03-2008 15:25  
Il postumo sognato

Quando si svegliò, quella mattina, gli sembrava che la testa stesse per esplodergli, e fece fatica anche a guardarsi intorno. Strizzò forte le palpebre due o tre volte, poi riaprì gli occhi. Roteò le pupille da un lato all’altro della stanza, senza muovere la testa, perché anche i muscoli del collo gli procuravano dolore. Osservò attentamente il soffitto bianco, illuminato a striscie dalle tapparelle su cui filtrava un tiepido sole. Poi lo sguardo si posò sul televisore che pendeva dall’angolo della parete, spento.
Che ore erano? Spostò molto lentamente la testa verso il comodino accanto al letto e il contatto con il tessuto ruvido del cuscino gli provocò un leggero prurito. Avvicinò la mano verso la guancia e fu in quel momento che si accorse dell’ago infilato nel braccio e della flebo, accanto a sé. Notò che, facendo quel movimento, il sangue usciva all’improvviso per salire lungo il tubicino, ma se distendeva l’arto lungo il corpo, il liquido ritornava indietro ricacciandosi dentro di lui. La cosa lo incuriosì tanto da riprovare il gesto più volte, in un nuovo e inaspettato gioco. Allargò la bocca in un sorriso di soddisfazione, che si tramutò presto in un ghigno di dolore, dato che le labbra si erano spaccate in più punti a causa della disidratazione. Si succhiò il labbro inferiore e assaporò il sangue che ora aveva trovato una nuova apertura per uscire.

Gli vennero in mente le sue tonsille: chissà dov’erano, adesso che il dottore gliele aveva rimosse.
Si era sempre domandato cosa facessero i medici degli organi asportati alla gente. La mamma gli aveva raccontato che certe volte servivano per aiutare le persone che stanno poco bene, come fossero dei pezzi di ricambio. Però Mattia pensava alla sorte di quegli organi che non servono o che non funzionano, come le sue tonsille, appunto. Dove avranno messo quelle sue ormai inutili ghiandole? Come staranno, ora, tutte sole senza di lui?
Un po’ gli venne da piangere. Per le tonsille e per il dolore alla testa e alla gola. Una lacrima percorse orizzontalmente il suo occhio, per poi cadere a precipizio sul cuscino in un grosso gocciolone.
Sentì delle voci al di là della porta, in corridoio, così tirò su col naso, con la mano si sfregò energicamente il viso e infine deglutì dolorosamente la saliva, il cui sapore era davvero disgustoso. Tese l’orecchio e riconobbe la voce della mamma e del dottore, ma non riusciva a distinguere bene le parole, che arrivavano a lui in un mormorìo informe. Aprì la bocca per chiamarli, ma tutto ciò che venne fuori fu un sibilo rauco e sommesso.
Ebbe paura.
E se il dottore gli aveva tagliato anche le corde vocali, per errore? O forse non era nemmeno un errore: magari la maestra Manuela aveva raccontato di tutti quei richiami durante le sue lezioni, perché chiaccherava troppo e disturbava in classe. Magari aveva mostrato al dottore le tre note che si era beccato durante gli ultimi due mesi e così insieme avevano deciso di eliminare il problema alla radice.
Al solo pensiero di quell’infame punizione, sentì il suo cuore palpitare con velocità dentro il petto, rincorso dall’ansia. Non avrebbe potuto più parlare, né cantare, né chiedere finalmente a Elisa se le andava di diventare la sua morosa. Non che fino ad allora gli fossero mancate le occasioni, ma ogni volta che le si avvicinava diveniva impossibile per lui dirle quanto la trovava bella, così preferiva tirarle la coda di cavallo, prenderla in giro, catturare una lucertola e mostrargliela, spaventandola. Era la via più semplice per stabilire un contatto, per farsi notare.
Un’altra lacrima scese lungo la guancia, silenziosa. Riprovò nuovamente a emettere un suono, sforzandosi come poteva, e questa volta fuoriuscì una voce che sembrava non appartenergli, un raglio soffocato che gli raspò la gola e che lo costrinse a fermarsi. Sospirò sconsolato.

Il silenzio ripiombò nella camera. In quegli istanti immaginò la sua futura vita senza voce: si vide arrivare a scuola, osservato con curiosità dai suoi compagni; sognò la teatralità dei gesti con cui si sarebbe espresso e i disegni che avrebbe confezionato per farsi comprendere, che nella sua mente erano talmente originali da suscitare l’ammirazione di tutti. Tra la folla di bambini scorse il volto di Elisa, che non avrebbe smesso di osservarlo con interesse. A Mattia piacque la scena. Pensò che quell’handicap poteva essere in realtà un dono, con cui avrebbe potuto finalmente diventare unico e speciale.

Il cigolìo della porta irruppe improvvisamente nella stanza. La mamma entrò di soppiatto e, quando si rese conto che il suo piccolo si era svegliato, gli sorrise con dolcezza. “Ehi, come stai?” domandò piano.
Mattia aspettò qualche secondo prima di aprire la bocca. Decise lì per lì di fare un’altra prova. Inspirò profondamente e poi, quasi sussurrando, riuscì a dire: “Bene, mamma.” Il suono della sua voce gli rimbombò in testa, sgretolando l’immagine che si era appena costruito: era tornato a essere un normalissimo bambino di nove anni, a cui un dottore aveva tolto le tonsille in un banale intervento. La mamma gli spiegò che sarebbe dovuto rimanere in ospedale ancora per qualche giorno. Mattia si augurò che Elisa andasse almeno a trovarlo.

[ Questo messaggio è stato modificato da: Chenoa il 01-03-2008 alle 19:08 ]

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Kubrick5


Reg.: 19 Apr 2006
Messaggi: 5694
Da: San Zeno (BS)
Inviato: 01-03-2008 19:28  
Il Viaggiatore


Quando si svegliò, quella mattina, gli sembrava che la testa stesse per esplodergli, e fece fatica anche a guardarsi intorno, ma lo fece comunque, consapevole di scorgere lo stesso paesaggio che da mesi e mesi cullava il suo sguardo. Infatti. Acqua e orizzonte. Orizzonte e acqua. Un'altra notte era passata. Freddo, caldo, vento, pioggia. Quel povero indios iniziava a maledire il giorno in cui disse al suo Capo-Tribù:Sono sicuro che c’è un altro mondo oltre la Grande distesa d’Acqua. Il Capo-Tribù rispose:Mi fido di te; prendi tutto quello che ti serve e parti. Hai la mia benedizione. Da quel giorno se n’erano sommati molti altri, troppi. Ormai la fiducia lo stava abbandonando per sempre. Ma, all’improvviso, un’ombra catturò lo sguardo di Pocho. Terra. Non voleva crederci, tanto era meravigliosa la vista di qualcosa che si dissociasse dal monotono e ormai ripetitivo azzurro dell'acqua. Giunto sulla terraferma iniziò a camminare senza meta, tanto era la gioia di non dover più remare. Ad un tratto si avvicinò a quello che sembrava un enorme accampamento autoctono. Stupìto e incuriosito, Pocho si fece coraggio e si addentrò in quello che per lui era il Nuovo Mondo. La prima cosa che lo fece rimanere perplesso furono gli indigeni, che non erano nudi come lui, ma indossavano degli strani lenzuoli enormi, parrucche e copricapo a 3 punte, ai piedi degli strani tronchi neri alti fino al ginocchio e altri tronchi di diverso colore alle gambe e braccia; e veniva deriso per la sua nudità, impensabile in quello strano villaggio. Cercò un albero dove potersi nascondere, ma non ne trovò. Cercò qualcosa da mangiare, ma le sue belle patotas erano sconosciute in quel luogo. Cercò anche di vestirsi come loro per non sembrare un escluso, ma gli abitanti del Nuovo Mondo avevano comunque paura della sua pelle cosi delicatamente marrone chiaro, e veniva allontanato da tutti. Iniziò a capire che in quello strano mondo, se volevi qualcosa dovevi per forza dare qualcosa in cambio. Nessuno era amico di nessuno. E non qualcosa che volevi, ma pezzi del materiale che loro avevano in grande quantità. Perchè mai tutti vogliono il metallo giallo?, si chiedeva Pocho. Deluso da questo Nuovo Mondo che non gli apparteneva e che non lo voleva, decise di tornare nella sua isola. Ma come poteva? Sarebbe sicuramente morto stavolta se avesse riprovato ad attraversare la Grande Distesa d'Acqua con quella misera barchetta. L'unica cosa da fare era chiedere aiuto al capo-tribù locale. E ci riuscì. Pocho, arrivato dinanzi ai Sovrani, disse:Vostre Maestà, sono sicuro che al di là dell’Acqua c’è un Nuovo Mondo. La Regina rispose:Mi fido di te. Stipendierò il tuo viaggio. Ah… un ultima cosa, posso sapere il tuo nome?
E Pocho, inventandoselo, rispose:Maestà, Cristoforo Colombo è il mio nome.

_________________
Occhio,
posto in A&F



[ Questo messaggio è stato modificato da: Kubrick5 il 02-03-2008 alle 13:23 ]

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oronzocana

Reg.: 30 Mag 2004
Messaggi: 6056
Da: camerino (MC)
Inviato: 02-03-2008 16:47  
La cosa giusta

Quando si svegliò, quella mattina, gli sembrava che la testa stesse per esplodergli, e fece fatica anche a guardarsi intorno.
Non sapeva in realtà perché quel battito stesse mettendo a dura prova il suo gracile cranio.
Eppure, fin dai primi anni trascorsi nella facoltà di medicina all'Università Politecnica delle Marche, ne aveva viste di cose. Frequentare una delle più famose cliniche ospedaliere comportava questo ed altro, ma quel maledetto mal di testa lo minava da dentro come mai era successo prima.
Ormai erano anni che aveva scelto quella vita. Una di quelle scelte che vanno fatte con un pizzico di incoscienza; un po' perché aver a che fare con malati di ogni tipo metterebbe a dura prova anche il più navigato dei medici, un po' perché sapeva di aver lasciato per sempre la sua vita.
Il padre glielo aveva ripetuto più volte, invano. Ma lui era risoluto, da sempre; nonostante fosse all'apparenza gracile, minuto e pallido. Trascurato, anche.
Se n'era andato da casa all'età di 15 anni anni. Aveva scelto di cavarsela da solo. Di abbandonare quella vita opulenta e agiata che gli aveva tarpato le ali per tutto quel tempo. Aveva un padre affettuoso, comprensivo, ma conservatore e padrone. Uno di quelli vecchio stampo: un vecchio, il suo vecchio. Sapeva che abbandonarlo sarebbe stata dura, tuttavia mai si sarebbe immaginato di dover combattere col suo inconscio così a lungo.
Sua madre non c'era più. Morta? Magari. Peggio, molto peggio.
Aveva avuto un incidente terribile quel giorno sulla statale 77. Continuava a non darsi pace per quello che era successo quel giorni di metà Agosto. Eppure sapeva che non aveva alcuna colpa per quell'infausto destino che proprio qual giorno, proprio sua madre, proprio la moglie di suo padre, aveva cercato di portarla via.
Aveva cercato? O c'era riuscito? Difficile a dirsi. Ormai erano 12 anni che quella splendida donna giaceva su quel letto. Un coma profondo, irreversibile, così avevano detto i medici. In verità avevano dette anche altre cose, ma tutte parole incomprensibili, all'epoca, per quel ragazzino poco più che adolescente. Mai avrebbe immaginato che avrebbero poi acquistato un senso.
Si era lasciato alle spalle il padre in lacrime. “Tornerò”, gli aveva detto. Sembrava deciso; e lo era.
Arrivo in quella città di mare solo. Eppure non ebbe difficoltà ad abituarsi a quella strana sensazione di solitudine che un po' accomuna le città portuali. L'aereo delle 17:45 atterrò a Falconara con pochi sussulti, un atterraggio da manuale, accompagnato dai soliti applausi italiani. Non riusciva a capire perché diavolo quei chiassosi italiani applaudissero al pilota. Che diavolo avrebbe dovuto fare? Schiantarsi? Sbagliare pista? Non seppe dare risposta.
Quella città era d'avvero strana. Costretta tra due promontori, in una conca naturale, come un infante in fasce, ma non soffocava. Era viva come nessun'altra. Il suo polmone era il mare, con quel porto che puntava verso l'infinito, così avrebbe detto qualche letterato presuntuoso, ma in realtà puntava verso la sua terra martoriata da decenni di guerre e soprusi.
Gli anni passarono in fretta. Tutto trascorse con una sola costante: l'abitudine di recarsi ogni mattina, prima di andare a lavoro, ad aspettare, al Passetto, il sorgere del sole. Non era un gesto patetico, era solo il suo saluto alla sua terra che soffriva al di là dell'adriatico.
Non gli sembrava vero esser riuscito a diventare medico. Lui, un albanese emigrante, era riuscito in ciò che molti italiani sognavano da sempre: entrare a far parte della casta medica.
Ma a lui non interessava. Non poteva interessargli alcuna casta. Aveva in mente solo lei: supina su quel letto ormai ancorato da anni al pavimento dell'ospedale. Quasi un appendice naturale di quel rinomato complesso ospedaliero.
Aveva perso ogni speranza ormai. Ma lei aprì gli occhi. Proprio così, dopo 12 anni di coma si svegliò.
... no, maledizione! era solo un sogno, un brutto sogno. Lei era lì, ancora lì. Schiava delle macchine: una rappresentazione dell'ironia del destino.
Con quel martellante mal di desta, dopo l'ennesimo illusorio incubo, decise di farla finita. Si chinò verso la macchina che la teneva in vita - così dicevano – e la disattivò.
“Click”.
Fu quello l'unico suono che riuscì ad arrivare al suo cervello ancora intontito da quel maledetto incubo. Un semplice “Click” aveva separato per 12 lunghi anni la madre dalla morte.
“Ho fatto la cosa giusta”.
Questa era l'unica cosa che riusciva a ripetere mentre i carabinieri lo ammanettavano.

4503 caratteri.


[ Questo messaggio è stato modificato da: oronzocana il 03-03-2008 alle 08:42 ]

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Jerry88

Reg.: 12 Mar 2007
Messaggi: 2130
Da: L'Aquila (AQ)
Inviato: 03-03-2008 01:17  
VISTA DALLA TORRE

Quando si svegliò, quella mattina, gli sembrava che la testa stesse per esplodergli, e fece fatica anche a guardarsi intorno. Fissò la nebbia. Gli ci volle un minuto per riprendere a ragionare e ricordarsi del sogno. A poco a poco la vista si schiarì. Realizzò di trovarsi in una stanza d’ospedale. Non avrebbe saputo descrivere come si sentiva, da una parte dolorante come se gli fosse caduto addosso un’intera casa, dall’altra felice di trovarsi lì, sveglio, dopo quell’orribile incubo. Non riusciva a focalizzare né la realtà né il ricordo. Almeno era certo che fosse stato un sogno? Gli capitava ogni tanto, lo sapeva, di fare incubi talmente strani da dubitare che fossero davvero sogni e non lavori della sua immaginazione. In un attimo si accorse di trovarsi seduto sul letto. Da quanto tempo si trovava in quella posizione? Doveva essersi alzato di scatto. Ringraziò non seppe quale forza, se ce ne fosse stata una, di essersi svegliato, e cominciò a ricordare.

Era solo, nel buio, si sentiva soffocare in un vuoto infinito, cercando con la vista e con le mani uno spiraglio di luce e di aria, ma era come cercare di afferrare in mano il cielo. Era durato un attimo, forse un minuto? Non seppe dirlo, forse un’intera vita. Si sentì un po’ strano quando cercò di portarsi una mano alla testa e si accorse di essere leggero come una piuma. Provò e si mosse senza sentire il minimo sforzo. L’unico dolore che provava gli apparteneva totalmente e non era dovuto al suo peso, perché ora il corpo sembrava esserne stato privato. Provò un senso di nausea ricordandosi ancora di quell’incubo in cui vagava senza meta ruotando su se stesso senza vedere il basso e l’alto, con la sensazione di spezzarsi e andarsene in tutte le direzioni da un momento all’altro. Smorzò i suoi pensieri quando vide entrare un dottore, o almeno quello che si sarebbe detto a prima vista un dottore. Vedendo un’altra persona recuperò in parte la sensazione dell’equilibrio.

«Salve, signor…»

Si accorse di non definire bene il significato delle parole di quell’uomo, dette in una lingua e in un accento non del tutto comprensibili, e che ora pronunciò un nome che a lui sembrava sconosciuto. Non è possibile che mi trovi qui senza ricordare niente, pensò. Cosa deve essermi successo? Cominciò a dubitare che quello fosse stato davvero un incubo. Devo aver avuto un incidente, si disse, o peggio. E doveva anche aver perso la memoria, perché non fu sicuro nemmeno del suo nome.

Non aveva seguito le parole del dottore, ma non ci fece caso. Quando si sentì abbastanza in grado di parlare, per poco non lo assalì.

«Dove diavolo mi trovo?»
«Lei è stato vittima di un grave incidente…»
Quasi involontariamente, smise per la seconda volta di seguire le parole dell’altro, e cominciò a farsi tornare in mente l’accaduto. Ci riuscì a fatica. L’ultimo frammento di ricordo, l’impatto contro il metallo e una sensazione di soffocamento fin quando non era sopraggiunto il buio assoluto.
«su quale pianeta ci troviamo?» disse interrompendolo.

Il dottore sembrò a disagio. Aveva fatto la stessa espressione quando gli era stata la rivolta la prima domanda. Dopo aver esitato per pochi istanti, rispose: «Lei è tornato sulla Terra». A quel punto ricordò tutto, o quasi. Gli venne in mente il suo nome, il suo incarico, il momento in cui era venuto a trovarsi nei guai, anche se non ricordò il perché. Gli sorse un’altra domanda: come faceva a trovarsi sulla Terra? Non pesava normalmente, come se si trovasse lì.




Doveva essere impazzito, fu il suo primo pensiero quando si fermò davanti ad un enorme vetrata, dove non certo per la lunga corsa che aveva appena fatto ma per il panorama che si trovò davanti agli occhi, rimase senza fiato. Non si chiese come mai nessuno aveva provato a fermarlo, ma piuttosto se quello che stava vivendo non fosse il vero incubo. Sentì dei passi dietro di lui ma stranamente non se ne interessò. Si sentì quasi cadere nel vuoto. La visione della Terra, distesa sotto di lui come un’interminabile vallata azzurra e bianca gli tolse letteralmente il fiato e il poco senso dell’equilibrio che gli era rimasto. La Terra rimaneva immobile sotto di lui, non girava attorno alla sua visuale. Erano privi di rotazione. Se quello che sospettava era vero, era addirittura un miracolo che l’avessero riportato indietro. Gli venne un ‘idea assurda, che lui stesso scartò un istante dopo ma che gli era sembrata l’unica spiegazione plausibile. Dovevano trovarsi in una torre alta migliaia di chilometri.

«Frank» intervenne il dottore, che non appariva affatto preoccupato della breve "fuga" del paziente, né minimamente agitato, «ho cercato di dirglielo con calma, ma dato che è arrivato qui prima lo sa e meglio è. Lei è, purtroppo, deceduto durante la sua missione ed è stato recuperato per pura coincidenza, oserei dire miracolosa, nello spazio. E ora è stato riportato in vita» Prevedendo la successiva domanda, proseguì «Siamo all’inizio del quarto millennio. Precisamente nel 3001».
«Le credo» Rispose Frank Poole. Poi tutto gli roteò attorno, si sentì cadere verso il vuoto infinito e non vide più nulla.

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Questo non è un lavaggio del cervello, questo non è un lavaggio del cervello, questo non è un lavaggio del cervello, questo non è un lavaggio del cervello, questo non è un lavaggio del cervello, questo non è un lavaggio del cervello, questo non è un lavag

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thetourist

Reg.: 01 Mag 2007
Messaggi: 7007
Da: estero (es)
Inviato: 03-03-2008 12:48  
PIOMBO

Quando si svegliò, quella mattina, le sembrava che la testa stesse per esploderle, e fece fatica anche a guardarsi intorno.
Prese il cellulare sul comodino per guardare l’ora, le 6 e mezza, il dolore alla testa era così forte da averla svegliata.
La tv era senza volume, trasmetteva immagini di un uomo che usciva dal mare con in braccio una sirena.
Si girò dall’altra parte, cercando di riprendere il sogno da dove si era interrotto, ma non ci riuscì. Riuscì soltanto a modellarlo secondo le proprie fantasie, non più cullata dall’inconscio.
Negli ultimi tempi i sogni erano l’unica cosa che le facesse provare emozioni, forse era per questo, si disse, che aveva sempre voglia di dormire.
Doveva andare in bagno, ma l’idea di alzarsi dal letto, con quel mal di testa le fece ignorare lo stimolo e richiuse gli occhi.

Camminava a piedi scalzi ma non sentiva il dolore che le provocavano i sassi di quella stradina brecciata, lui la teneva per mano, dove la stava portando? Giunsero in uno spiazzo erboso, con un albero troncato a mo’ di sedia. Intorno funghi, fazzolettini di carta appallottolati sparsi un po’ dappertutto, una lavatrice rotta, senza più cestello.
La fece sedere su quel sedile di legno e le disse di aspettarlo lì, sarebbe tornato subito.
Cominciò a fantasticare su come l’avrebbe sorpresa stavolta, cosa avrebbe inventato? Avrebbe fatto come la volta scorsa, che arrivando all’improvviso alle sue spalle l’aveva fatta urlare di paura e poi presa a calci per aver fatto troppo rumore? Sperò di no.
Sperò che tornasse con un sorriso, magari con qualche fiorellino di campo, le piacevano così tanto…
Passarono minuti, ore, ma lui non tornava… il cielo cominciò a farsi scuro. Una pioggia sottile cominciò a bagnarle i capelli, le mani, le cosce…
Sentì un campanello, dapprima lontano poi sempre più forte, regolare, insistente.

Si svegliò alzandosi di scatto e sentì la sua testa pesante come fosse di piombo, spense la sveglia. Si accorse che il letto era bagnato, si rese conto che quella pioggia che l’aveva bagnata durante il sonno altro non era che pipì. Menomale che ora era da sola, pensò, ci mancava solo questa.
Era in accappatoio quando chiamò Anna, le disse che nemmeno oggi sarebbe andata a lavorare, che non sapeva quando sarebbe tornata, di dire a Gorini che l’affare con i russi avrebbe dovuto condurlo lui da solo, di non farsi inutili complessi, che ne sarebbe stato perfettamente in grado. Salutò Anna: “no no non ti preoccupare è tutto a posto, ho solo un po’ di mal di testa, sì sì, se mi sento meglio ti chiamo per il week end, e salutami Giorgio, ahahah ma no dai stai tranquilla, ok.”
Andò in cucina, prese una tazza dalla pila di piatti sporchi e la lavò. Fece colazione pensando ad una soluzione, come avrebbe potuto andare in una ferramenta e chiedere una corda? Avrebbero capito tutti, l’avrebbero guardata ancora di più in quel modo strano che la faceva sentire a disagio.
Forse avrebbe potuto comprare una di quelle strisce che si usano per alzare gli avvolgibili, come si chiamavano? E se poi qualcuno si fosse offerto di aiutare a montarla? In quel paese erano tutti così solerti…
Aveva già scritto la lettera, messa in bella vista sulla consolle dell’ingresso, se mai qualcuno fosse venuto a cercarla, l’avrebbe trovata subito, e prima di trovare lei, appesa in salotto.
Sorrise di se stessa, di come anche nel più tragico dei gesti si preoccupasse di non recare troppo fastidio agli altri, in questo caso di non sconvolgere troppo il primo che si fosse degnato di cercarla. Il sorriso si trasformò presto in una smorfia di pianto.

Di ritorno dalla ferramenta andò diretta in salotto, prese una sedia e cercò di arrivare a togliere la plafoniera piazzata proprio al centro della stanza, non ci arrivava. “Cazzo!” Ora sarebbe dovuta andare dal vicino e chiedergli in prestito la scala, e rifiutare il caffè, e lasciarsi andare a convenevoli e discorsi interessantissimi sul cattivo tempo. Imprecando scese dalla sedia e meditò su un altro metodo.
E se si fosse tagliata le vene? Ma come? Sarebbe bastato il rasoio che usava per depilarsi? E se si fosse buttata sotto il treno? Che brutto modo di morire!
Andò dal vicino, e dopo una mezz’oretta di chiacchiere inutili e un caffè fortissimo che accentuò il suo mal di testa, tornò a casa con una scala. Un po’ stizzita dal fatto che probabilmente il primo a trovare la lettera sarebbe stato il vicino che rivoleva la sua fottuta scala, cominciò a svitare la plafoniera.
Se avesse continuato a vivere l’avrebbe cambiata prima o poi, come cazzo si faceva a mettere in salotto una plafoniera? Era una cosa da bagno! Da veranda, tutt’al più.
Gli inquilini precedenti non ne capivano niente di arredamento.


Il portiere stava cercando di aprire la porta di quell’appartamento da cui usciva una puzza dolciastra, e dal quale non usciva nessuno da almeno tre settimane. Vicino a lui, un uomo sulla sessantina, in vestaglia, aspettava.
Finalmente la porta si aprì, era sempre stata difettosa, e quell’odore li invase.
Il primo ad entrare fu il portiere e andò dritto verso la fonte di quell’incubo dolciastro.

L’uomo in vestaglia uscì: “Mi scusi!” disse all’uomo che stava entrando proprio in quel momento “per poco non la colpivo con la mia scala…” L’uomo si scansò per lasciarlo passare e l’altro continuò: “era un suo amico? Che peccato, era così dolce.”
L’uomo , sconvolto, si precipitò dentro.
Sulla soglia, sparsi per terra, un mucchietto di fiorellini di campo.

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sandrix81

Reg.: 20 Feb 2004
Messaggi: 29115
Da: San Giovanni Teatino (CH)
Inviato: 03-03-2008 13:57  
Alienare


Quando si svegliò, quella mattina, gli sembrava che la testa stesse per esplodergli, e fece fatica anche a guardarsi intorno.
Si passò la mano tra i capelli dietro la nuca, e poi sul cuscino, per vedere se durante la notte avesse sudato. Ma non gli sembrava emicrania, sinusite o un’altra diavoleria del genere.
«Aaahia, porrca troooia…», tastandosi la fronte dalle tempie fino al centro.
Ricordava benissimo tutto quello che aveva fatto la sera precedente, e del resto non gli ci voleva molto, dal momento che la sera precedente era stata identica a tutte le altre.
Soffiò col naso quando si sorprese a vagliare anche solo per un attimo l’ipotesi del rapimento alieno. Pensò ecco, sono ufficialmente un cretino, e scosse la testa («Ahia cazzooo!»). Dei sogni che potesse aver fatto durante la notte aveva solo i classici vaghi ricordi frammentati di dialoghi subreali e situazioni ancora più assurde.
Doccia bollente e tè appena fatto non migliorarono la situazione. Neanche il Nozinan delle dieci.
«Affanculo gli AA, qua un goccio ci vuole eccome». Riempì la tazza del tè di Jack Daniel’s, brindò facendo cin cin contro la bottiglia, e vuotò nel lavandino prima la tazza e poi la bottiglia.
Lanciò un’occhiata al telefono.
«Pronto?»
«Ehilà»
«Ma cciaaaao amoremiobbello, come stai?»
«Mah nzomma, e tu?»
«No aspe’, come nzomma? Che ciài?»
«Ma niente, mi sono alzato con un mattone sopra la testa, anzi dentro la testa»
«Ma noooo, pooovero il mio patolino testolino. Stai lì buono e resisti che arrivo tra un mezzomenoquasi secondo»
«Ma no dai non starti a sbattere, che non…»
«Arrivociao!» clic.
Prese il telefono, stavolta davvero, e trovò anche il coraggio di premere il tasto verde dopo aver digitato il numero.
«Pronto?»
«Ehilà»
«Oh»
«…mbè che fai di bello?»
«Mah niente, come al solito, mi rompo»
«Ah beh… io invece niente, come al solito. Continuo la mia sfida di resistenza contro le molle del divano, prima o poi dovranno pur cedere»
«Ah complimenti, una giusta causa a cui dedicare la vita»
«Sì grazie. Beh, oggi però mi sono alzato con un mattone sopra la testa, anzi dentro la testa»
«Ah che mmerda quando ti svegli così»
«Ah grazie, ti stimo anch’io!»
«Ahaha ma no, dicevo in generale»
«Ma sì dai che avevo capito. Beh hai impegni inderogabili o ti va di venire a far compagnia a un malato terminale moribondo prima che trapassi?»
«Ah, eh, ma tra un po’ arriva Mauro.»
«Aah vabbè non c’è mica problema, dicevo così… visto che ti rompevi…»
«Eh mi spiace. Semmai domani.»
«Ma sì dai non preoccuparti»
«Se non trapassi prima»
«Eeehh. Dai, salutami Maurozzo allora, buon divertimento», pezzi di merda.
«Se ti senti di uscire e vuoi venire qui…»
«Ma no dai ti ringrazio. Me ne starò qui a trapassare buono buono.» E chiuse gli occhi fingendosi morto.
«Daaai!»
«Eh beh oh!»
«Tanto non mi farai sentire in colpa»
«Uff. Addio allora»
«Allora semmai ci sentiamo per domani. Ciaociao»
«Right. Ciao pupa».
Dopo pochi minuti non ricordava più se aveva telefonato davvero o se si era immaginato anche la telefonata in versione realtà. Si alzò, mise a bollire l’acqua per il tè e prese il Nozinan delle tredici alle dieci e ventisette. Prese la bottiglia del Jack Daniel’s per rovesciarne un bicchierino nel lavandino, e bestemmiò ritrovandola vuota. «Il solito stronzo ingordo».
Riprese il telefono, e fece il numero del dottore.
«Oh carissimo buongiorno, come va?, mi dica»
«Mah in generale va bene, come al solito. Beh il solito di adesso insomma. Stamattina però mi sono alzato con un mal di testa micidiale. Mi sono alzato con un mattone sopra la testa, anzi dentro la testa»
«Cioè più forte delle altre volte?»
«Quali altre volte, dottore?»
«Mm, no niente [come niente?!]. Ma per il resto come va? Riesce a combinare qualcosa?»
«Oh sì, un paio di molle del divano hanno iniziato ad allentarsi un pochino»
«Mm. Cerchi di fare qualcosa, una cosa qualsiasi. Ma non starà mica continuando a bere?»
«Solo stamattina ho fatto fuori una bottiglia di Jack»
«Mm. Cerchi di evitare. La terapia le fa effetto?»
«Sì, forse, credo di sì. Ma le ho quasi finite»
«No, dovrebbe averne ancora»
«No guardi, ne prendo in continuazione, altro che agli orari stabiliti»
«Sì ma dovrebbe averne ancora. Almeno le ultime che le ho dato. Comunque eventualmente se proprio non ne ha può passare anche stamattina»
«Mmnon credo di averne voglia»
«Capisco. Cerchi di fare qualcosa. Non ha dietro il computer? Non le piaceva stare al computer? Anche quello può andare, una cosa qualunque. Non le piaceva guardare film?»
«Ssì, ma non ho proprio voglia di fare niente»
«Si riguardi. Arrivederci» clic.
Ma quali cazzo di altre volte?!
Si alzò per cercare i dvd presi una settimana prima (o un mese?) al videonoleggio in città, e dentro alla busta dei dvd trovò il Nozinan che il dottore gli aveva dato l’ultima volta.
Dentro alla busta c’era anche una bottiglia di Jack.
Prese le terapie delle sedicidiciannoveventidue aiutandosi col Jack per mandare giù.
Andò alla finestra per guardare fuori. Il nulla era lì al suo posto, squarciato da un raggio di luce fosforescente proveniente da un altro punto della vallata e puntato verso il cielo.
Pensò a una cosa che aveva letto, sull’ultimo libro del suo autore preferito: “non sono gli Ufo a rapirci. I veri rapiti sono loro, gli alieni, così brutalmente e prepotentemente trascinati nella nostra realtà da quell’immenso e sconosciuto universo oscuro che è la nostra mente”.
Si guardò la cicatrice sul polso sinistro. Soffiò col naso e scosse la testa. Si buttò sul divano.

_________________
Non vorrei mai essere iscritto ad un forum che accettasse tra i suoi moderatori uno come me.

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anthares

Reg.: 21 Set 2004
Messaggi: 14230
Da: Trento (TN)
Inviato: 03-03-2008 14:11  
L'INCUBO


Quando si svegliò, quella mattina, gli sembrava che la testa stesse per esplodergli, e fece fatica anche a guardarsi intorno.
Ogni volta che faceva quel sogno finiva per svegliarsi in un bagno di sudore,e impiegava parecchi secondi prima di rendersi conto che era stato solo un orribile incubo. Quando gli oggetti cominciavano a prendere forma uscendo dall'oscurità della stanza il suo terrore diminuiva, e riusciva lentamente a ricordare.

Anche questa volta tutto era cominciato col solito copione: nel tardo pomeriggio d'una grigia giornata invernale stava passeggiando senza meta per le vie cittadine, con passo lento si allontanava dal traffico e dai rumori in cerca di tranquillità, fino a ritrovarsi in un quartiere sconosciuto.
Cercava allora di ricostruire l'itinerario che lo aveva portato in quella zona, senza riuscirci: il passaggio fra il noto e l'ignoto era talmente rapido che il cervello lo registrava sempre troppo tardi.
Si fermava sul marciapiedi osservando la novità del luogo e il senso di stranezza e mistero che aleggiava sulle vecchie case avvolte da un’atmosfera ovattata, come se quello non fosse un quartiere come gli altri, ma una città fuori dal tempo. Poi ricominciava a camminare nel labirinto di strade e vicoli, e finiva per fare una sconcertante scoperta: non si vedeva passare anima viva, il rumore dei suoi passi era l'unico suono che udiva, nessun essere umano popolava quelle vie sconosciute.

Le ore passavano e l’oscurità iniziava ad invadere il quartiere silenzioso; ad un tratto notò che una luce veniva accesa in un palazzo di fronte a quello lungo il quale stava camminando. Attraversò la strada arrivando davanti ad un portone di legno massiccio rovinato dal tempo, lo spinse e quello si aprì cigolando lievemente; entrò nel grande atrio buio e si avvicinò ad una porta da cui filtrava una fessura di luce, restando un attimo fermo in ascolto. L’assoluto silenzio e l’intuizione che lì dietro lo attendeva qualcosa di terribile gli facevano battere forte il cuore, ma poi toccò con la mano la porta che si aprì docilmente: la stanza che apparve ai suoi occhi era abbandonata da anni, tristemente squallida, ma illuminata da un grande candelabro acceso appoggiato su un tavolo. Lunghi filamenti di ragnatele pendevano dal soffitto e il pavimento era coperto da un alto strato di polvere, su cui tuttavia non era visibile alcuna orma.

Un brivido gelido gli partì dalla testa e corse lungo la schiena, e nella mente gli esplose la domanda: " Chi ha acceso le candele? ”

Tanti pensieri confusi affollavano la sua mente, e fra tutti lottava per farsi strada quello della fuga, ma una folle paura lo paralizzava. E fu allora che li udì: una specie di tonfi soffocati, che si ripetevano in rapida successione spostandosi nella stanza, poi sostavano prima di ricominciare daccapo. Dopo un lungo attimo di pausa i tonfi soffocati ripresero un'altra volta, dirigendosi verso di lui.. sembravano i passi di un’assurda e caotica danza, ma non potevano essere piedi umani..

Il suo urlo di terrore ruppe il silenzio.

[ Questo messaggio è stato modificato da: anthares il 03-03-2008 alle 16:35 ]

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TomThom

Reg.: 07 Giu 2007
Messaggi: 2099
Da: Mogliano Veneto (TV)
Inviato: 03-03-2008 15:07  
Io Non Ti Dimenticherò

Quando si svegliò, quella mattina, gli sembrava che la testa stesse per esplodergli, e fece fatica anche a guardarsi intorno.
E allora rimase steso a letto, assorto nel buio, distante nell’atto.
Le particelle di oscurità si aggrappavano alla sua barba ispida, di due giorni, le fessure dei balconi occhieggiavano sistematicamente al giardino sotto casa, civettuole. Ad ogni rintocco del rumorosissimo pendolo indiano, acquistato al mercatino del paese per pochi spicci e appeso con un chiodino minuscolo al muro, i vicini di casa temevano costantemente che ad una sua rumorosa e sonora caduta si sarebbe fermato il tempo. Un big-bang al contrario.
Con le dita si divertì a cercare nelle crepe eteree della sua stanza tenebrosa un segno di vita, magari una fata dell’aria, magica e con ali fluorescenti. Oppure un polipo bianco volante, illuminato al suo interno da una lampada a petrolio appartenuta al capitano Nemo.
Ma nulla di tutto quello, nessuna delle sue fantasie prese sostanza.
Svogliatamente, cupamente, accese l’abat-jour e una fioca luce si diffuse intorno, iniziando dalle mura bianche, che restituite al leggero chiarore dopo una notte di tetro terrore, parvero riprendere vita d’improvviso.
Schiuse il suo viso dalle sue mani, con lentezza, e socchiudendo gli occhi ancora pregni di sogno, sollevando lo sguardo notò che in un angolo, appena dietro la scrivania, se ne stava in piedi un uomo dall’aspetto triste che lo fissava.
Aveva lunghi capelli bianchi, abiti eleganti ed un’aria pittoresca. Pareva un vecchio principe dei tempi andati. Teneva in mano una fotografia e lacrime sottili scendevano sulle sue guance avvizzite.
Si avvicinò a quell’anziana visione con circospezione e lieve timore, e posandogli una mano sulla spalle, gli chiese: “ Perché piangi, vecchio? Posso aiutarti? Come sei capitato in questa stanza? Ho temuto tu fossi un fantasma e mi hai un po’ spaventato... ”.
“ Effettivamente lo sono ”, gli rispose quello, “...E sono sceso su questa terra, in questa camera che non conosco, con questa fotografia che ho trovato sul tuo comodino, per ricordare in qualche modo mia figlia. L’ho perduta tra i sentieri del cielo, sai... La ragazza che vedo in questi tratti somiglia molto a lei...Mi piacerebbe poterla rivedere...Sono venuto quaggiù per questo, non mi negare un attimo di pace.... ”.
Egli guardò con grande pena il canuto spirito, ed accarezzandogli malinconicamente la testa disse: “ Questa ragazza è mia figlia...Anche io l’ho smarrita, ha preso la rotta crudele verso la quale siamo tutti indirizzati, prima del giusto tempo...Forse potrei chiederti io di lei...L’hai mai notata, seduta a cavalcioni di qualche nuvola? L’hai mai vista giocare con un mazzo di stelle? Mi manca...E la vorrei qui con me. ”.
“ No, non l’ho vista mai...Mi sarei accorto di lei...”, sussurrò lui con occhi gonfi di pianto... “ Ma ora che so, ora che mi hai detto la verità, lassù getterò uno sguardo più attento a coloro che mi stanno attorno e le porterò il mio saluto, se mai dovessi incontrarla, e le porgerò il tuo pensiero, che so non l’abbandona mai. ”.
Il pendolo rintoccò sette volte, la luce dell’abat-jour si spense, le mani del buio tornarono voracemente a pregare il silenzio per coloro che c’erano, per quelli che andavano a far brillare una scintilla in più, tra le pieghe del cielo.

_________________
" ...Let me ask you something. If the rule you followed brought you to this, of what use was the rule? ..."

[ Questo messaggio è stato modificato da: TomThom il 03-03-2008 alle 15:13 ]

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revangier

Reg.: 05 Feb 2008
Messaggi: 2484
Da: NAPOLI (NA)
Inviato: 03-03-2008 16:02  
DESTO O SON SOGNO?

Quando si svegliò, quella mattina, gli sembrava che la testa stesse per esplodergli, e fece fatica anche a guardarsi intorno.
- Alo, Alocin! Fresco di pensiero e già stonato! Magra figura! Vergognati!
- Non fare l’Indhjana, mi stai frullando da 3 dì in quella testaccia, bannata!
Angusto spazio FilmUP e deserto; girovago come un cadavere da fumetto in attesa di essere fumato per andare in fumo.
Ho bisogno di compagnia, porca Eva!
Non sono Adamo ma io so accontentarmi di un collo di giraffa.
Mi ha generato una misantropa! Faccio fagotto e mi cerco un autore più sbrigativo come eltonjohn.
- Ingrato misogino! Ti ho fornito l’essenziale: letto, attaccapanni, poggia-bastone.
Dove vai che soldi in tasca non ne hai, non hai neppure le tasche, sei nudo come un verme e lassù non t’è rimasto nemmeno DottorDio?
- C’è Dr. House in TV! Ahhaha! Sei troppo pudica per calarmi nelle badlands ignudo, però la zimarra s’impiglia sotto i tacchi! Mi hai cucito dietro questo lungo strascico da sposa con tanto di tulle. Taglia!
- Tira fuori la linguaccia!
Fakuser! Hai uno scopo nella tua breve esistenza, chiudi il becco e lasciami lavorare!
- Me tapino, perché devi sacrificarmi, voglio l’avvocato Marcos!
Dammi in adozione, affidami alle cure della bella tourist di passaggio!
- Non ti chiami Anna, non hai lentiggini e chioma divisa in due trecce rosse.
Non sperare in un tetto verde casomai un tour a Valparaiso in compagnia di Mario54 al prossimo hollyday!
Farai ciò per cui sei nato!
- Non succhierò il sangue a Sandrix! Mi chiameranno gay! Scordatelo!
Schiavo non sono della tua estrosa revangier!
- Chi ti ha manomesso? Sei sciroccato! Tu sei figlio di una razza super partes!
- Fosse stato un gatto ci lasciava lo zampino! Ingenua, vivi nella più cieca utopia!
- Lei nel Privé, io nel Pubblico Ludibrio.
- Pivella! Ne hai di strada da percorrere!
Sali sulla vettura taxi-driver di Deeproad. Naviga smoderato sui fiumi di Petrus ed escogita fughe alla Ayrton Seanma lanciandosi dalle auto pestando delicati corpi di giovani fanciulle Richmondizzate.
- Se becchiamo una tarantola appesa al filo, ci marmizziamo entrambi!
Chi ci salverà dal carnivoro invertebrato?
Gli tappo il naso per fargli aprire la bocca e deviare l’aracnide nel tunnel della sua gola?
- Il grande Gatsby vi sbarazzerà del minaccioso Nereau!
- Ti ha plagiato a sua immagine e somiglianza il ganzo! So chi è stato, me l’ha pkdickato Polimar!
- Lunatika! Topper non s’intromette e Mizar non vibra rullando il Tenenbaum.
- Ti hanno indottrinato bene l’ingegnere e vietcong!
Mancano ancora aggettivi per incorniciare il ritratto nel quadro.
- Non posso sbottonarmi, tremo dal freddo, sono anemico mica Picasso!
- Esci e rifocillati!
- Pericolo di estinzione a quest’ora.
- Tu sei già estinto, Skualo!
- Permalosa e nevrotica!
- Lucchetto la bara o obbedisci alla tua ideatrice?
- Mah! Mi han lasciato in memoria “buona di cuore e sensibile”.
Controlla nel petto, please, senti un battito per caso?
- Creatura di joeblack, hai perso i lumi di Anthares!
Miagoli come il TomThom di Jerry, ti relego nella malebolgia!
- Sloberi mi ha rinchiuso con oronzocana nella gabbia di LauraX con la complicità del fido assistente pensolo.
- Urge Bannatore.
- È un fake esordiente!
Janet, invoco THE PRESTIGE, salvami dal castigo di ‘sta follettina.
Oh Lady lady Lol-lina, non sono LaFenice, mi sbriciolo in polvere, sì, ma non rinasco dalle mie ceneri!
- Di che Quilty ti lamenti, ti recensirà AlZayd!
- Bada che il limite è fissato a 5500 caratteri!
Kubrick ha scoperto l'America senza partire all’avventura.
- Pochocan! Oldboy è dell'83 ed è più saggio di me.
- Inserisci EricDraven, Mozart - il felino di mulaky - e Batman: voglio cantare in coro L’AMICO È!
- Intona LA MIA NEMICA ODIATISSIMA a qualche pantera rosa o ti estirpo le tonsille e recido le corde vocali!
- Sì, Dylan Dog alle calcagna e conducimi al circo!
- Attaccati al tram o t’incollo un segugio al sedere che ti riduce il mantello a brandelli.
- Il Galaxy Espress 999 viaggia con la Luna storta sulle 23?
- T'arrangi agitando le tue ali di pipistrello o voli con Mayapan.
- Quante rogne! E non posso svegliarmi col cerchio alla testa!
- Vade retro, vampiro sconsacrato! Il cerchio sta agli angeli quanto le corna ai demoni delle tenebre.
- Dammi un segno, dammi un sogno!
- Ti do il segnale! Facciamoci la croce! Tu non entrerai in una chiesa. Morirai senza assoluzione.
Al massimo t’incido il marchio di ZoraGhost sugli zebedei.
- Per tutte le Marienbad! Cedimi una donna con la gonna!
- UN COLPO DI FULMINE no? Ha vinto Sanremo.
- E io?
- Il Tonno di Giò e il Poncho di Lola.
- Conto alla rovescia! Preparati!
Drin driiin driiiiin!
Alzò il capo dal cuscino in preda a spasmi e sudori freddi.
Si toccò le mani, la faccia: sono vivo!
Era un incubo, me la rido e ballo il tuca-tuca!
Le 3. Buio pesto. Un'ombra furtiva alle spalle.
Guardò nello specchio: il suo viso smunto e il suo corpo nel pigiama azzurro.
Nulla, per fortuna.
- No?
- Cristo! Ma tu sei me, sei me nell’incubo onirico! Sto ancora sognando.
Si voltò, guardò di nuovo nello specchio: la sua sagoma dal viso sparuto.
Calma!
- Dovresti imparare dallo specchio. Rifletti! E poi taci!
Sussulto!
- Non lo sai che i vampiri non rimandano la loro immagine?
- Ma chi cazzo sei?
- Vlad Tepes III, il leggendario conte Dracula.
Sai che provengo dal principato della Transilvania, regione della Romania?
- No!
- E ma che minchia! Non posso addentarti senza invito!
- Dillo a chi sta scrivendo, è fatta così, perdona tutti, pure Sandrix!
- E chi è Sandrix?
- IO!
Che History AtIpIcA!
_________________

Same rules don't apply to everyone!

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liliangish

Reg.: 23 Giu 2002
Messaggi: 10879
Da: Matera (MT)
Inviato: 04-03-2008 20:08  


La prima di Maia.

Quando si svegliò, quella mattina, le sembrava che la testa stesse per esploderle, e fece fatica anche a guardarsi intorno. Si sforzò di sollevarsi dal giaciglio di paglia su cui si era accasciata, la mente offuscata dal liquore drogato del druido. Il rude amplesso del Re barbaro l’aveva lacerata, lei, creata per squarciare e mutilare restando intatta. Sentire dentro di sé il membro di una razza antica non era stato poi così piacevole. Odorava di erica e muschio, ma l’aveva presa con la fame ansiosa di un soldato, piuttosto che col potente desiderio di un Re. Guardò desolata il giaciglio accanto al suo: era vuoto. Le sue grazie di quindicenne non erano bastate a trattenerlo fino al mattino.
Talorc Mac Achiuir non aveva tempo per lei. Nonostante non fosse ancora l’alba già si muoveva nel campo per organizzare i suoi, perché con le prime luci del giorno, ne era sicuro, i Romani avrebbero dato battaglia.
Anche Aigal era già sveglio, scaraventato letteralmente a calci fuori dalla tenda in cui aveva dormito sulla gelata terra di Caledonia. Forse era stato un errore far scegliere ad Maia la loro prima missione. Si erano lasciati catturare dai Pitti, che li avevano separati. Lei era stata “regalata” a Re Talorc, un rito propiziatorio alla vigilia della battaglia. E il rito doveva essere stato consumato, dal momento che Re Talorc era vivo. Pensò che Maia avrebbe fatto meglio ad ucciderlo, a costo di compromettere la missione. Ma doveva esserci una droga nell’intruglio bollente che le avevano fatto bere. Una droga che le aveva tolto le inibizioni. O le forze, e non era riuscita a difendersi…
Era così preoccupato che non ascoltava gli ordini del Pitto cui era stato affidato. Quella lingua primitiva suonava alle sue orecchie come un rumore molesto. Ma quando fu raggiunto da una staffilata che disegnò un rivolo di sangue sulla sua coscia non poté evitare di voltarsi con un urlo. Colpa di quei dannati genetisti che l’avevano reso invulnerabile senza togliergli il senso del dolore. Il barbaro gli mollò un calcio prima di caricargli sulle braccia un’enorme fascina di legna, sotto il cui peso un ragazzo normale sarebbe vacillato. Aigal si avviò brontolando verso le salmerie, e un Gaelo che lo seguiva osservò incuriosito la ferita superficiale richiudersi lasciando la pelle intatta.
Maia stava meglio, e avrebbe voluto lavarsi; ma il ruscello era popolato da barbari seminudi e trucidi, per farlo avrebbe dovuto compiere una carneficina. Uscì dalla tenda e guardò il cielo tingersi di un azzurro sempre più pallido. Non sarebbe stata una buona giornata, per i soldati Romani. Le attraversò la mente il cupo pensiero d’esser solo un’assassina inviata in quel passato remoto per masticare vite. Lo scacciò innervosita.
Doveva trovare Aigal.
Vagò a lungo per l’accampamento prima di vederlo. Il sole spuntava all’orizzonte e le truppe cominciavano a muoversi, disordinatamente, ma con ardore e selvaggia furia che gli derivavano dalla fame e dal pensiero delle donne, nascoste nelle grotte sulle montagne. In quell’ammasso di carne ambulante che bestemmiava e sputava, emanando un puzzo devastante di sudore e sangue di ferite infette, d’un tratto scorse una figura bianchissima e scarna, e il cuore le si riempì di gioia.
Anche Aigal, nel vederla, trasalì, correndole incontro. Si baciarono sulla bocca come avevano fatto sin da bambini, nei corridoi bianchi e asettici dell’Istituto di Cybergenetica in cui erano nati.
“Dobbiamo andare avanti” gli disse subito Maia. “In prima linea, accanto a Talorc”
“No. Dobbiamo dividerci. Tu andrai avanti con Talorc. Io raggiungerò le postazioni dei Gaeli, sui fianchi della collina. Mi confonderò con loro e quando attaccheranno di sorpresa sarà come essere duemila anziché mille.”
Maia esitò. “So che non morirò. Ma il dolore… come sopporterò il dolore, senza di te?”
“Non ha importanza il nostro dolore. Quel che conta è la missione. Indebolire l’Impero, qui e in altri mille posti ai confini. Farlo cadere più in fretta.”
Aigal aveva ragione. Se l’Impero Romano fosse caduto allora, sarebbe seguito un periodo di transizione di mille anni. Altrimenti, mille anni di decadenza, e altri diecimila per tornare a quel livello di civiltà. Era questa la loro missione.
Dovettero separarsi.
Maia raggiunse la prima linea, correndo con le sue gambe leggere, così veloce che passava accanto ai soldati senza che la vedessero. Si fermò accanto a Re Talorc e sembrò apparsa all’improvviso. Il Re la guardò sorpreso, ma era un uomo che credeva alla magia. E quella strana fanciulla, dalla pelle profumata di mirra, di cui si era nutrito con l’ansia dell’ultimo pasto prima di morire, aveva tutta l’aria di una strega.
Allora lei ebbe un gesto inconcepibile per una schiava: prese per mano il Re. Avrebbero guidato insieme l’orda contro i Romani.
Talorc non seppe spiegarsi perché non si fosse ritratto da quella presa. Soltanto dopo, quando tutto fu compiuto, e i campi di erica erano ormai allagati di sangue, si lasciò cadere sdraiato in quel rosso carnaio, distrutto dalla fatica, e cominciò a capire.
La vide venirgli incontro, tenendo per mano quel suo strano compagno altissimo e magro, che al pari di lei si era battuto quasi fosse Lùg in persona, tranciando arti e mozzando teste. Li vide con gli occhi offuscati dal sudore e dal sangue della vittoria, e l’attimo dopo non li vide più: si erano dissolti nel bagliore violaceo del crepuscolo.
Fu allora che comprese di aver giaciuto con una dea.


_________________
E mi confondono con le costellazioni dell'abisso le stelle che le zampe delle anatre disegnano nella cedevole mota del pantano.

[ Questo messaggio è stato modificato da: liliangish il 04-03-2008 alle 20:12 ]

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mulaky

Reg.: 09 Lug 2002
Messaggi: 32104
Da: Catania (CT)
Inviato: 05-03-2008 00:32  
Denti bianchi

Quando si svegliò, quella mattina, sembrava che la testa stesse per esploderle e fece fatica anche a guardarsi intorno. Si prese la testa tra le mani e con i palmi si strinse le tempie. Non ricordava nulla, sentiva solo un rumore lancinante nelle sue orecchie. Non capiva cosa fosse, forse un ticchettio di un orologio, la perdita del lavandino. No, niente di tutto questo. Ascoltò bene, non era un rumore proveniente da quella casa, anzi c’era un insolito silenzio. Ciò non era possibile. Si guardò intorno, cercando di ricostruire quanto fosse successo fino all’altra sera. Non ricordava nulla, solo quel rumore secco e ripetuto ma indecifrabile, come se non esistesse. Scese dal letto e i piedi nudi atterrarono su un curioso tappeto – «Chi ha avuto il coraggio di comprare un tappeto del genere?», si domandò. Controllò tutte le stanze di quell’appartamento, cercando i tasselli mancanti per ricostruire quanto accaduto nelle ore precedenti e si accertò che quel rumore non provenisse realmente da una stanza. Sorrise non trovando la causa dei suoi mali. «Forse è così che si diventa pazzi. Dopotutto ci sono quelli che sentono le voci… no?». Si accorse di aver dormito vestita, strano per una come lei abituata alla comodità in casa.

Sollevò la levetta del rubinetto e riempì un bicchiere. Osservò le bollicine nate dal contatto dell’acqua con l’aspirina e accadde una cosa strana: per un attimo, una frazione di secondo, rimase rapita dagli schizzi e non sentì quel rumore martellante. Si alzò di scatto e rovesciò il bicchiere: l’acqua cadde e tanti piccoli cristalli brillarono di luce propria in quella cucina in penombra. Si accorse proprio in quel momento di un lungo corridoio buio mai visto prima con una miriade di porte tutte uguali. «Ma…dove… Che…posto…» non riusciva a pronunciare una frase di senso compiuto, non riusciva ad articolare un pensiero sensato. Sentiva solo il pulsare all’unisono di cuore e testa. Non capiva, ma di una cosa era sicura: doveva correre e tutto sarebbe stato più chiaro. Correre per cercare qualcosa, anche solo per trovare una via di fuga. «Quale porta scegliere?… Quale percorso?», domande alle quali non riusciva a dare una risposta e fu allora che decise di ricorrere all’unica arma disponibile: l’istinto.

Si avvicinò a una porta un po’ titubante ma si fece coraggio, appoggiò la piccola mano sul pomello dorato, prese fiato e aprì la porta. Fu immediatamente catapultata in un altro corridoio identico. Riprese a correre, aprì altre porte velocemente. Vide poche stanze, porte che portavano ad altre porte. Un labirinto senza fine. Non si perse d’animo, non voleva tornare indietro. Sapeva che avrebbe dovuto correre, anche a costo di non riuscire più a respirare. Si ritrovò in un salotto, lo ricordava vagamente ma non ebbe il tempo di ricordare nient’altro perché dovette scappare da qualcuno – «…forse qualcosa». Entrò in un’altra stanza, stavolta sconosciuta. Capì essere in un armadio, circondata da camicie bianche e a righe, tutte uguali. Cercò una via di fuga e si trovò, di nuovo, nel corridoio infinito e tortuoso. Sentiva di non essere la sola a correre, quasi come se qualcun altro stesse percorrendo i suoi stessi passi, ma al contrario e in un corridoio parallelo. Una sensazione che nemmeno lei seppe spiegarsi. Corse ancora lungo il corridoio. Entrò in una stanza luminosa, con pareti gialle e una pianta: per la prima volta aveva visto qualcosa di vivo. Sorrise. Il ticchettio si faceva più forte, era dannatamente insopportabile. Capì di essere sulla strada giusta, la soluzione era senz’altro vicina. Sfinita, aprì l’ultima porta.

Ed entrò. Il ticchettio svanì. Si trovava in un posto molto strano, quasi una grotta illuminata solo per metà e all’orizzonte un infinito nero. Sussurrò «…Tu?…», quasi non credendo a ciò che era dinanzi ai suoi occhi. Ricevette in cambio un sorriso molto dolce. Lei rimase turbata, non riusciva a capire perché era proprio lì, non lo vedeva da anni. Si avvicinò lentamente a quella che sembrava sabbia, questa almeno era la sensazione a contatto con i piedi, una sensazione piacevole. Nonostante il luogo un po’ inquietante, si accorse che si stava bene con quel tiepido raggio di sole che filtrava dall’alto. Fece qualche passo avanti e si sedette. Tirò un po’ su i jeans, per scoprire le gambe e abbracciò le ginocchia. Guardò quella vasta distesa nera e penso fosse mare. Non volle accertarsi un po’ per la sua poca propensione alla fiducia, un po’ perché non riconosceva il tipico odore del sale.

Perché si trovava lì? Perché quella corsa affannosa? Chi o cosa cercava? Cosa era realmente accaduto? Dov’era? E perché lui? Tanti erano gli interrogativi che affollavano la sua mente ed era difficile, per lei, riuscire a rispondere a quelle domande, anche solo una.

Lo guardò attentamente, era visibilmente cambiato, non molto ma tanto quanto basta per rendersene conto.
«Come sei arrivato?»
«Correndo, alla fine sono arrivato qui, qualche ora fa. Da quella porta che si è richiusa»
«Quei passi che sentivo, eri lui allora…» disse parlando a sé stessa, a voce alta.
«Certo, chi altro volevi che fosse?»
«Smettila» disse con ben poca convinzione.
«We never change, do we?»
Le si sedette vicino, proprio in direzione del raggio di sole e continuò a sorriderle, mostrando i suoi denti. Lei non ricordava denti più bianchi e scintillanti di quelli, nonostante avesse incontrato diverse persone nella sua vita. Ma quei denti erano difficili da scordare, come tutto il resto d’altronde.
«Quindi è così che…»
«Sì».

mulaky
03/03/2008
_________________
What you fear in the night in the day comes to call anyway

Well darling if the shit came out then, I suppose that the shit went in

(A.D.)

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Nietzsche

Reg.: 03 Ago 2007
Messaggi: 2264
Da: smaramaust (BZ)
Inviato: 05-03-2008 19:02  
IL RISVEGLIO DI MELVIANA

"Quando si svegliò, quella mattina, le sembrava che la testa stesse per esplodergli, e fece fatica anche a guardarsi intorno. La luce abbagliante del sole inondava la stanza. Era mattina inoltrata.
Qualcuno si era svegliato prima di lei. “Avrà avuto del lavoro da finire, anche se oggi è sabato..”, pensò un po’ malinconica Melviana.
Che nome assurdo le avevano dato, con la smania tipica dei borghesi arricchiti, che cercano di darsi un tono regalando ai figli briciole di nobiltà fasulla.
Però, ora come ora quel nome così bizzarro le tornava comodo.
Ancora indugiava nel letto, ripensando alla notte trascorsa. Cercava di rimettere insieme i pezzi della serata, ora dopo ora. Guidata dalla sua ferrea razionalità, pretendeva sempre che i tasselli si incastrassero perfettamente l’uno nell’altro. Non ne mancava mai uno.
Tornò con la mente al pomeriggio precedente.
Ore 16, una telefonata. “Ciao, passo a prenderti alle 20, abito elegante, cena formale. Sarai bellissima, lo so.” Abito elegante? Voleva dire migliaia di euro.
Ore 17, qualcuno al citofono. Un pacco enorme per lei.
Cinque minuti dopo, Melviana indossava uno splendido Versace, verde smeraldo, scollato quanto bastava a far intravedere il suo morbido decolletè. Ore 20, una potente ed enorme auto la attendeva fuori casa. Cena in ristorante di lusso, quattro coppie, le signore abbondantemente truccate, ingioiellate e profumate. Da lì in poi, qualche tassello mancava.
“Devo aver bevuto molto, troppo” si confessò Melviana. “Svegliamoci!”
Faticosamente girò la testa senza alzarla dal soffice cuscino che la cullava. Gli occhi ancora umidi di sonno scorsero le sigarette e l’accendino. I ricordi riaffiorarono uno ad uno, mentre la sigaretta si accorciava.
Un uomo affascinante. Non particolarmente bello, ma curato, gentile. Un uomo potente. Un uomo che l’aveva fatta sentire una gran dama per una notte intera.
E anche ora che se ne era andato.
Melviana si alzò con decisione dal letto, ansiosa di scoprire in ogni angolo il nido in cui aveva dormito, il luogo che aveva cullato il suo piacere nella notte senza sogni da cui si era destata.
Una suite, senza dubbio. Il letto era enorme, quattro persone ci avrebbero comodamente dormito. Un baldacchino imponente lo completava, ricordandole le sfarzose stanze di Versailles. La camera da letto si affacciava sul soggiorno, dove campeggiava un elegante divano in pelle bianca. Ovunque vasi di camelie fresche. La porta si apriva sul terrazzo, dove un tavolo era stato riccamente imbandito per la colazione.
Un sogno.
Melviana si guardò allo specchio a figura intera appeso all’ingresso. Un sorriso beffardo e malizioso si disegnò sulle sue labbra. “Ti è andata di lusso, signorina. Di gran lusso”.
Non seppe trattenere una risata, e come una ragazzina corse a rubare un croissant dalle delizie della colazione. Con un gridolino infantile si lanciò sul letto. Era completamente nuda. E felice. Non era bellissima, dopotutto. Non altissima, non una pin-up, non elegante quanto quel posto da sogno prometteva.
Eppure in quel momento era una principessa.
Una principessa senza principe né castello.
Ma che importava? Melviana non si era mai innamorata veramente di qualcuno, mai al punto da lasciarsi andare follemente. Amava la sua famiglia, questo sì, i suoi genitori. Mamma e papà, di cui ricordava bene come l’avevano a loro volta amata. Coccolata, viziata. Le avevano regalato un appartamento e un auto sportiva. Tutto quello per cui le persone lavoravano una vita, lei, ventenne, l’aveva già.
Aveva tutto e poteva avere tutti.
Perché soffrire? Una volta la bisnonna le aveva raccontato delle sofferenze patite durante la seconda guerra mondiale. “ C’è una sola cosa per cui è valsa la pena subire tutto quel dolore e quell’angoscia” le aveva confessato “e questa cosa sono i rapporti con le persone.”
Melviana non aveva mai compreso quelle parole. La sua vita era votata a Dio, a quell’unico Dio che l’aveva cresciuta, nutrita e poi drogata.
Il denaro.
Mentre ripensava alle parole della bisnonna, qualcosa attirò la sua attenzione. Una busta bianca, sulla credenza davanti al letto. Si avvicinò con calma.
Mille euro.
Le si impresse in volto il sorriso compiaciuto e soddisfatto di chi sa di aver svolto bene il proprio lavoro.
“Grazie”.


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Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuov
e la mia faccia sovrapporla a quella di chi sa chi altro
ho ancora i tuoi 4 assi bada bene di un colore solo
li puoi nascondere o giocare con chi vuoi
o farli rimanere
buoni amici com

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gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
Messaggi: 15032
Da: Roma (RM)
Inviato: 06-03-2008 08:26  
Dietro il vetro


Quando si svegliò, quella mattina, gli sembrava che la testa stesse per esplodergli, e fece fatica anche a guardarsi intorno. Ecco i postumi di una non prevista passeggiata notturna, di quel mezzo cono dal gusto indefinito (sicuro non era frutta!) sleccazzato accanto ad un tavolino e di qualcos’altro che non ricordava, non voleva ricordare. Giornate come quelle del giorno prima gli spezzavano il ritmo, non facevano per lui. E sì che agli inizi, quando era giovane, tutto gli sembrava entusiasmante: una luce, un odore, una carezza o un nome, non c’era modo di fermarlo. L’abitudine era una parola senza significato e anche una corsa al chiaro di luna lo rendeva felice. Lui era uno di quelli che non stava mai fermo, ansioso, sì, ma anche voglioso di conoscere, di sentire, provare, distrarsi. Forse proprio per questo era piaciuto a Lucia quel giorno, quello del loro primo incontro quando, ad alta voce, guardandolo negli occhi, gli scappò “Ma quanto sei carino?”.
Per seguirla si era trasferito in città, per lei aveva rinunciato alla vita di campagna, alle interminabili corse con i fratelli, a quello stendersi sull’erba godendo di quel mix di sole e venticello che rende un pomeriggio degno di essere vissuto. Sempre e solo per lei aveva acconsentito di voltarsi quando lo si chiamava Attila, un nome che non gli era mai piaciuto, anche quando lo si intonava affettuosamente. Attila, Attilone, Attilino, Lino…L’idillio iniziale purtroppo era finito presto. Lucia lavorava e lui no, questo era il problema principale. E così il suo riposo mattutino e pomeridiano non serviva ad accumulare forze per serate particolari all’insegna di giochi e uscite per le vie della città. Lei la sera era già stanca, non aveva né tempo né voglia. Al massimo un po’ di coccole e carezze, ma neanche tutte le sere. Cena?Sempre la stessa. Oltretutto non mangiavano nemmeno le stesse cose. Lui, diceva lei, aveva lo stomaco sensibile. Era vita quella?Amava ancora Lucia?Si, senza dubbio. Che lei fosse arrabbiata, distrutta, indifferente o allegra, lei era la sola capace di illuminargli gli occhi con il semplice esserci. Amava come lei leggeva quei grandi libri quando lui, dall’altro capo del letto per star lontano dalla luce, si addormentava chiudendosi su sé stesso. Amava quei weekend passati nella casa al mare di lei, quando sulla spiaggia lui sembrava facesse collezione di granelli di sabbia. Amava il suo odore, avrebbe saputo riconoscerlo anche al primo piano di un grande magazzino, dove signore imbellettate spruzzano profumi di ogni tipo su polsi pronti agli esperimenti. Una volta gli sembrava persino di averlo fatto: l’aveva trovata col semplice odore tra mille altre persone dopo che lei da troppo tempo mancava da quando aveva detto “Tu aspettami qui”. Amava le sue scarpe, ne conosceva tutti i modelli. Sì, l’amava e anche se avesse dovuto passare quasi tutte le ore della sua vita sdraiato su di un divano o a prendere il sole in giardino, quel poco che avrebbe ricevuto in cambio gli sarebbe bastato per essere felice. Almeno fino ad una settimana fa.
Chi era infatti quell’uomo che sempre più spesso li andava a trovare?Ok, il suo nome era Marco, era un collega dello studio che inizialmente doveva parlare con Lucia di alcune pratiche di lavoro, ma là, Marco, stava cominciando a diventare una cosa piuttosto frequente, troppo frequente per dei semplici colleghi. E quel suo fare il simpatico, non era affatto simpatico, anche se lei sembrava apprezzare. Che voleva, che rappresentava?E perché ora stava ripetendo quanto aveva fatto ieri dopo il gelato, e cioè baciando la sua Lucia come se lui non ci fosse, come se lui, da dietro quel vetro, vicino alla cuccia, non potesse che abbaiare per fermarlo?

Andrea D’Addio

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Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento : quello in cui l'uomo sa per sempre chi è

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