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Autore SCHIZOBIS
Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
Messaggi: 1658
Da: Aosta (AO)
Inviato: 10-08-2006 15:09  
A

ANNO DEL DRAGONE http://forumfilmup.leonardo.it/forum/viewtopic.php?topic=52853&forum=4&0

ALIEN

ALIEN di Ridley Scott 1979 (il mostro è dentro di noi)

“cos’è, cos’è, si riproduce vivo in me, cos’è…..?”
Afterhours Germi

Ci sono tre film che hanno rivoluzionato il genere fantascientifico e due di questi portano la firma del grande Ridley Scott: Alien (1979) e Blade Runner (1982). L’altro film è naturalmente 2001 A Space Odissey (1968) di Kubrick ma questo film merita una analisi a parte, essendo pietra miliare e insieme film spartiacque contemporaneamente.
Perché Alien è rivoluzionario?
Per almeno tre motivi: perché posiziona la minaccia aliena non all’esterno ma all’interno, facendola rinascere dal ventre (paterno) di un essere umano, in una continua allusione alla maternità (il computer non si chiama HAL ma MOTHER) e alla possibilità che sia il sonno della ragione a generare i mostri ( e in effetti solo un gesto irrazionale può fare aprire il portellone dell’astronave Nostromo e fare entrare dentro il microcosmo umano la creatura aliena ,oserei dire La Cosa alla maniera del maestro Carpenter, che deve avere visto Alien almeno una trentina di volte, prima di girare il suo capolavoro). Già in questo primo punto la coerenza di Ridley Scott è massima: infatti il gatto non è toccato dal mostro alieno, che sembra ingigantirsi man mano che le paure e gli errori umani si moltiplicano (ma come non si fa a non sospettare di Ian Holm?). Insomma è irrazionale aspettarsi che l’uomo sia razionale.
Il secondo motivo è la netta equivalenza tra crescita incontrollata tumorale e sviluppo della creatura aliena. Da quando lo vediamo nascere (e un fremito d’orrore misto a commozione avvolge quella scena entrata nella leggenda del cinema) fino al momento dello scontro finale con Ripley-Sigourney Weaver, Alien cresce a dismisura in maniera esponenziale mimando la progressione di una neoplasia maligna. Scott riesce a fare combaciare insieme la sopra menzionata paura di generare un mostro (tipica di molte donne in gravidanza che hanno paura di generare neonati con qualche orribile deformazione), con la paura di avere qualcosa dentro che si sviluppi in maniera incontrollata, deturpando la normale fisionomia della nostra immagine corporea (notate la precisa descrizione scientifica che fa lo scienziato Ian Holm, splendido prototipo dei replicanti di Blade Runner, delle cellule che compongono il rivestimento dell’alieno, assomigliano proprio a cellule neoplastiche).
Terzo motivo è il clima claustrofoico che si viene a creare man mano che il racconto procede e l’andamento cadenzato eliminatorio (modello …”e poi non ne rimase nessuno” di Agata Christie) che è davvero avvincente e, a mio parere, avrebbe trovato il suo climax adatto nel mostrare dove vanno a finire alcuni dei cadaveri catturati dall’alieno (purtroppo la scena è stata tagliata). La bravura di Scott è di generare la paura ad ogni inquadratura, suggerendo l’ubiquità e inafferrabilità di una creatura aliena che si adatta quasi immediatamente alla atmosfera della Nostromo, strisciando tra i condotti d’aria e impadronendosi rapidamente dei segreti dell’astronave, attaccando di sorpresa e mimetizzandosi così rapidamente da sembrare un esperto dell’Arte della guerra.
Guerra psicologica tra i vari componenti dell’astronave e paura dell’ignoto che fa saltare i nervi ad attori e spettatori in un crescendo di altissima tensione.
Finale che avrebbe potuto essere più interlocutorio, magari una lunga inquadratura del ventre di Ripley dormiente, quasi a suggerire che la minaccia potrebbe essere li dentro…. Ai posteri l’ardua sentenza.Enorme successo di pubblico, saga composta da altri tre episodi (tutti di ottima fattura ma pur sempre inferiori all’originale, io ho un debole per l’ultimo episodio La Clonazione).
Scenografia di alto livello con umanizzazione delle strutture meccaniche. Soliti computer che invece di rispondere alle domande si ingarbugliano in password e codici d’accesso (e non rispettano nemmeno i conti alla rovescia!). Note di merito per John Hurt (oh my elephant man!!) e Harry Dean Stanton. Quando la Weaver lavora nella saga Aliena, riesce a dare il meglio di sé
Mostro di Carlo Rambaldi (per la parte meccanica) disegnato da Giger (con allusione agli organi genitali maschili).

vedi anche qui

AMORESPERROS

AMORESPERROS di Alejandro Gonzales Inarritu 2002 (The exact opposite of God ovvero The City of Dog)

Debutto al fulmicotone per questo giovanissimo regista messicano (che si autoproduce) che intreccia tre differenti storie con diversi punti di contatto in 150 minuti di film frenetici e densi di omaggi cinefili. I primi minuti anche se sono una citazione nemmeno troppo velata del folgorante inizio di Reservoir Dogs di Quentin Tarantino sono girati con una frenesia e una abilità da maestro navigato. E a dire il vero la prima parte del film, quella che narra dei combattimenti tra cani e descrive abilmente la storia d’amore impossibile tra Octavio (un bellissimo Gael Garcia) e Susana, moglie di suo fratello Ramiro, in una Città del Messico piena di rifiuti (umani e canini) e nero bitume, è davvero convincente e tesissima. In questa prima sezione Inarritu è molto equilibrato e sa districarsi bene tra la violenza iperespressa nelle immagini e la sdrammatizzazione in un turpiloquio davvero esilarante, inserendo anche nobilissimi elementi di riflessione poliico-sociali mai banali. Poi però già dal secondo episodio si innesta una altra caratteristica di questo giovane autore messicano (che verrà purtroppo enfatizzata nella opera due 21 Grammi) la tendenza a scivolare nel melodramma latino, accatastando disgrazie su disgrazie, coincidenze su coincidenze, sfortune su sfortune, che appesantiscono la narrazione e la fanno stagnare su lacrimoni e sospironi, manierismi nei dialoghi e nei primi piani insistiti. E’ come se Inarritu sia sempre pronto a scivolare sull’amaro miele dell’intreccio da fotoromanzo barocco latinoamericano e riesca solo a tratti, con il sapiente montaggio del film e la costruzione di simbolismi riusciti (il cartellone pubblicitario vuoto, i due fratellastri liberati come cani da combattimento) a volare alto lontano dalla contaminazione sentimentale. La terza sezione sembra riportare il film sul binario simil tarantiniano dei primi quaranta minuti ma poi Inarritu decide di intestardirsi a farci vedere tutto ( e spiegare tutto). Ci fa vedere in primo piano una bella bara con morto, ci fa assistere ad una patetica dedica su segreteria telefonica di un padre figliuol prodigo che scoppia a singhiozzare e ancora un cane (Nero) e il suo padrone che riprendono la via come i due innamorati in Tempi Moderni di Chaplin. E anche sul nostro amato Garcia che prende una decisione assurda. Non era meglio chiudere il film su una lunga attesa alla stazione degli autobus mentre scorrono i titoli di coda (con camera fissa in campo lungo)?
Resta comunque un film sopra la media, una piccola preghiera inascoltata verso un Dio che sembra chiudere troppo spesso gli occhi sulle miserie umane e a cui gli uomini spesso abbaiano solo come alibi per continuare nella loro mediocre avidità e nella loro assurda ferocia. Se si legge al contrario God che parola esce fuori?

APRI DGLI OCCHI

APRI GLI OCCHI di Alejandro Amenabar 1997 (la vita è sogno)

“Forse posso aiutarti a ricordare……”
“E’ una minaccia?”

Alejandro Amenabar classe 1972 sforna a soli 25 anni questa opera seconda impressionante (la sua opera prima è un altro film assolutamente originale come Tesis) che per tema trattato e modo di sviluppare la narrazione richiama in maniera abbastanza scoperta le atmosfere da incubo del fantasma dell’ Opera e certe visioni oniriche apocalittiche e fantascientifiche di Terry Gilliam.
Un giovane si trova con il suo psichiatra rinchiuso in un manicomio criminale accusato di omicidio.
Ha una maschera sulla faccia a coprire un volto orrendamente sfigurato da un incidente di macchina. La vita reale e il sogno si mescolano abilmente e in realtà lo spettatore subisce lo smarrimento del protagonista davanti a una realtà che da un certo momento in poi assume i contorni di un incubo paranoide. In realtà esiste una spiegazione logica per tutto questo e Amenabar la fornisce, da abile prestigiatore, negli ultimi 5 minuti di film, svelando il fantascientifico arcano.
Amenabar ha un grande pregio, quello di non farsi prendere la mano e di tenere saldamente in pugno personaggi e storia, con diverse pennellate d’artista (l’incubo della città vuota all’ inizio, la scena di Penelope Cruz-Sofia mimo sotto la pioggia, la scena della discoteca in cui la maschera calzata al contrario fa apparire il giovane Eduardo Noriega Cesar un novello Giano bifronte).
In più il giovanissimo regista non si accontenta di intorbidire con le immagini del subconscio una realtà posticcia inserita (a pagamento) nella testa del protagonista (il subconscio sostituisce Sofia con Nuria e fa saltare il giochetto della Life Extension), ma sottolinea con mano leggera la caducità della bellezza fisica di fronte alle recite quotidiane delle amnesie improvvise. La solitudine immensa che circonda il povero Cesar dopo il terribile incidente di macchina è semplicemente il raccolto avaro della sua semina di cinismo e nichilismo, di tradimento dei valori, di vuoto esistenziale, di mancanza di punti di riferimento o comunque di guida morale (quando il giovane Cesar guarda le foto di Sofia a casa della ragazza, in realtà avverte per la prima volta il vuoto di sentimenti e affetti, l’assenza di ricordi della sua infanzia e dei suoi genitori, l’incapacità a fissare un momento reale in una esistenza tutta basata sul carpe diem). In quel momento Cesar apre gli occhi (“abre los ojos” sembra più un esortazione al nostro Cesar e allo spettatore a non farsi ingannare rispettivamente da falsi idoli e da false realtà) e prova il primo vero sentimento d’amore per Sofia. E’ se il dejavù non fosse altro che un microchip inserito nel nostro cervello che sostituisce un realtà simile ma insopportabile? Ma Dio Padre può essere sostituito da uno psichiatra? Forse come diceva Calderon de la Barca la vita è sogno, ed è più facile trasfigurare la realtà, piuttosto che affrontarla. Preferiamo, in fin dei conti, indossare una maschera e fingere, piuttosto che essere veramente noi stessi; preferiamo chiudere gli occhi e volare giù piuttosto che aprirli e lottare. Il film si chiude abilmente su una seconda possibilità: apri gli occhi, Cesar, apri gli occhi. E’ ora di svegliarsi, ragazzo, il sogno è finito.

Nel 2001 è stato proposto un rifacimento hollywoodiano di questo film dal titolo “Vanilla Sky” con la stessa Penelope Cruz, Cameron Diaz e Tom Cruise. Io preferisco l’originale.
Amenabar incontrerà più avanti il successo internazionale e l’Oscar con “The Others” e il fantastico “Mare Dentro”


[ Questo messaggio è stato modificato da: Schizobis il 16-08-2006 alle 11:01 ]

per la recensione di ALIEN vedi qui:
http://www.cinemaplus.it/leggi-recensione.asp?id=112

[ Questo messaggio è stato modificato da: Schizobis il 24-09-2006 alle 18:14 ]

[ Questo messaggio è stato modificato da: Schizobis il 24-09-2006 alle 18:17 ]

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Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
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Da: Aosta (AO)
Inviato: 10-08-2006 15:16  
B

BUNUEL



http://forumfilmup.leonardo.it/forum/viewtopic.php?topic=52575&forum=3

BATMAN

BATMAN di Tim Burton (la solitudine del vendicatore)

Il 1989 rappresenta la consacrazione di Tim Burton che con il solo bagaglio di tre film alle spalle (Frankenweenie del 1984, Pee wee Big Adventure del 1985 e il più famoso Beetlejuice del 1988) si confronta con un mito dei fumetti come Batman e vince la sfida alla grande.
Il film è divertente e scorrevole, geniale nelle citazioni, sferzante nelle battute fulminanti di un istrionico e gigantesco Jack Nicholson Joker (vero protagonista del film) che ad ogni apparizione fa aumentare il livello di gradimento e di lucida autoironia. Una scena su tutte è quella del furore iconoclastico di Jack Joker al museo che si placa davanti a una tela di Francis Bacon con la battuta memorabile “No, questo non toccarlo, è il mio genere…”.
Altro elemento positivo è la scenografia post-modernista (direi un Gaudì che ha assunto LSD) e immersa nelle tenebre (dell’anima) che crea una atmosfera inquietante e onirica (premio Oscar).
A completare il quadro la perfetta tenuta di Keaton (bravo nel suo ruolo di vendicatore con rimorsi di coscienza) e soprattutto di Kim Basinger che è molto convincente come musa catartica del pipistrello supereroe. Tim Burton umanizza il supereroe (stesso procedimento di Sam Raimi per Spiderman) e lo porta al perenne conflitto tra la sua sete di vendetta e la necessità di crescere elaborando il lutto. Insomma il classico eroe di Tim Burton alienato e solo, romanticamente splendente nella sua diversità, sensibile e tormentato, che porta sulle spalle i peccati del mondo e spesso ne è travolto. L’equilibro tra esigenze spettacolari e analisi psicologica rende questo film il migliore della saga (ma anche il secondo Batman di Burton con il pinguino DeVito è all’altezza) e le due ore di film scorrono serene verso la resa dei conti tra due psicopatici: quello cattivo (Joker) e quello buono (Batman) che sembrano avere bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere. E’abbastanza evidente: dietro queste maschere, a volte ridanciane, a volte tenebrose, questi due uomini, fondamentalmente, piangono la loro follia vendicativa.

BLOW UP

BLOW UP di Michelangelo Antonioni 1966 (la negazione della evidenza)

“Ehi ma non avevi detto che eri a Parigi?”
“Infatti sono a Parigi”


Se andate a vedere le critiche del Morandini e del Mereghetti, tanto per citare quelli più popolari, questo film di Antonioni è giudicato abbastanza severamente, il primo dice che il film si perde nel momento in cui il regista ferrarese vuole fare il profondo e spiegare tutto, il secondo lo liquida come “datato”. Le stelline e i pallini assegnati sono non corrispondenti al giudizio scritto (nel senso che sembramo sovrastimati rispetto alla critica) e questo un primo indizio sulla inafferrabilità critica del film. Anche se come prodotto di consumo cinematografico Blow Up ha sicuramente qualche pecca (qualche episodio eccessivamente portato per le lunghe, mi riferisco all’amplesso con le due ninfette o a quello dell’incontro con l’antiquario) e non è fruibile dal grande pubblico (che in effetti non ha mai amato Antonioni) resta l’immenso valore filosofico e rivoluzionario dell’opera. Filosofico perché tratta di un argomento ontologico della nostra esistenza che è la inafferrabilità del reale e la negazione dell’evidenza sensoriale. Rivoluzionario è perché il primo a trattarlo da punto di vista figurativo cercando di suggerire con le immagini qualcosa che è davvero impossibile da rappresentare: ovvero il nulla che ci circonda. Ci sono vari modi di rappresentare la realtà nel cinema: si può evadere da essa e trasfigurarla in maniera grottesca come fa Federico Fellini, si puo trasformare la realtà rappresentandola in un sogno dalle connotazioni psicoanalitiche (basta squarciare il velo superficiale ipocrita e falsamente sorridente) come fa David Lynch. Si può anche narrare la realtà “in quanto tale” come fa Vittorio De Sica in Ladri di Biciclette. Oppure si può sottolineare il potere temporale dell’immagine e la dilatazione del ricordo (e paradossalmente dell’oblio) che investe il presente (e il futuro) come fa Alain Resnais in Hiroshima Mon Amour o in L’anno scorso a Marienbad.
Oppure si può narrare per sottrazione (negazione dei sentimenti, negazione dei personaggi, negazione del parlato) fino ad arrivare a negare la realtà stessa. Quello che vediamo è semplicemente falso. L’ingrandimento fotografico (appunto Blow Up) porta alla luce diversi livelli di realtà, ma più ingrandiamo più arriviamo al punto in cui tutto si volatilizza e scompariamo anche noi. Antonioni non si ferma solo al parallelo tra indagine investigativa e indagine conoscitiva del reale.Aggiunge altre due importanti connotazioni filosofico-esistenziali ( e si badi bene NON psicoanalitiche): la prima è che vi sono varie forme d’arte che si avvicinano a rappresentare l’essenziale e l’assoluto della nostra realtà organolettica: nel film viene citata la pittura (quell’astratta puntiforme dell’amico pittore e la perdita assoluta della visione come in milioni di microchip accostati, ma quella veramente una gamba? Ma quello è veramente un corpo?), viene citata la Musica (notate come David Hemmings insegni a Vanessa Redgrave ad andare contro tempo sentendo un pezzo di swinging jazz), la Architettura (date un occhiata all’appartamento del nostro fotografo e alla progettazione e strutturazione degli ambienti), la Scultura (la visita all’antiquario e l’innamoramento folle per una grossa elica). Lo stesso Cinema è una forma di avvicinamento all’assoluto non visibile (si pensi ai magnifici titoli di testa su sfondo verde) e l’omaggio di Antonioni ai fratelli Lumiere è abbastanza evidente (l’uscita di uomini da un dormitorio pubblico assomiglia a quella di operai da una fabbrica come in uno dei primi documentari dei fratelli Lumiere).
La seconda connotazione dipende dalla sceneggiatura, dai dialoghi e dallo svolgimento dei fatti. In effetti se ci fate caso il film procede per una assurda sequenza di finzioni: David Hemmings è un fotografo e non un operaio, la moglie spara bugie al telefono, lui finge di dare il rullino giusto a Vanessa Redgrave, la stessa Vanessa dà un falso numero di telefono, le due ninfette fingono di amare, la fotomodella professionista Verushka finge di dovere andare a Parigi e finge l’amplesso nel primo servizio fotografico, la donna dello studio fotografico va a letto con il pittore (bello il suo gesto di esortazione al silenzio). Le stesse foto appese in tutta la casa sembrano una pallida imitation of life contrastante con i colori accesi esaltati dalla fotografia di Carlo Di Palma

BOXING HELENA

BOXING HELENA di Jennifer Chambers Lynch (il talento non si eredita)

La figlia del regista David Lynch si cimenta nel 1993 con la sua prima e ultima regia, Boxing Helena ossia riduzione di Helena a Venere di Milo. Un chirurgo (Julian Sands) con problemi edipici insormontabili e grave eiaculazione precoce si innamora non corrisposto della sgradevole ma sensuale Helena (Sherilyn Fenn che sostituisce una riluttante Kim Basinger) e approfittando di un incidente la rende un moncherino senza braccia e gambe.
Manca tutto in questo film, la suspence, la forza onirica, la sensualità delle immagini, la coerenza narrativa. Non ha il coraggio del padre la povera Jennifer e infatti non affonda il coltello nella piaga del torbido e conclude la storia prendendone le distanze, quasi in un tardivo pentimento.
E’ un peccato vedere un bravo attore come Julian Sands intrappolato in questa operazione suicida (modello Fantasma dell’Opera di Dario Argento) ed è amaro pensare che, probabilmente, se il regista avesse avuto un cognome diverso, probabilmente questo obbrobrio senza braccia e gambe, ma soprattutto senza testa, non avrebbe mai visto la luce.
Il talento non segue le regole Mendeliane e il film pur rivestito in confezione di lusso, si rivela una stupidissima bolla di sapone.
Piccola annotazione positiva per la scena di sesso tra Julian Sands e Nicoletta Scorsese.
Il resto è da dimenticare.

BLUE VELVET

BLUE VELVET di David Lynch 1986

Dopo il clamoroso fiasco di Dune (ma il film dovrebbe essere rivalutato) David Lynch piazza un colpo da maestro ritornando a temi a lui più congeniali e sfornando un vero e proprio manifesto d’autore. La storia ruota attorno al suo alter ego Kyle MacLachlan, il giovane Jeffrey che scivola lentamente (ma volontariamente) dentro una spirale di sesso, masochismo, sadismo e violenza, che però in fondo gli appartengono. L’inizio è spesso citato come uno degli esempi del talento registico di Lynch: il sipario blu si apre su una natura incontaminata, in cui i colori risaltano come overespressi, il rosso dei papaveri, il verde del prato, il bianco della staccionata. Ma dietro questa visione tranquillizzante e bucolica, scendendo in profondità, oltre la segnatura di tutte le cose, brulica un mondo di neri insetti con un terribile disturbante ronzio di fondo.Il film è tutto in questo contrasto, in questa distanza tra gli opposti, ma anche nella possibilità che questi opposti possano essere albergati in uno stesso individuo. Il viso da bravo ragazzo di Jeffrey, sveglio studente di Lumberton, citta dove si abbattono alberi e si lavora il legno (con un motivetto ripreso da Enrico Grezzi in Blob) contrasta con le manie vojeuristiche e gli abbandoni istintuali cui si concede. Rivelatoria la scena in cui Jeffrey dopo aver baciato castamente la fidanzata modello (una convincente Laura Dern) subito dopo si ritrova tra le gambe della cantante Dorothy, perversa sadomasochista, con la sindrome di Stoccolma (una coraggiosa ma lignea Isabella Rossellini), che gode solo se picchiata dal suo giovane amante. L’orecchio trovato in mezzo al verde campo è la porta d’ingresso verso questo incubo a cascata che si avviluppa al nostro protagonista facendolo precipitare senza arrivare mai allo schianto. La Dorothy che canta Blue Velvet ammirata dal giovane Jeffrey ma anche dal sadico pervertito Dennis Hopper (interpretazione da manuale psichiatrico tra un esalazione di gas esilarante e l’altra) rappresenta tutta la sensualità selvaggia e inespressa, che solo due labbra rosso scarlatto possono in qualche maniera lasciare intravedere.
Eppoi questa musica che non è solo colonna sonora ma asse portante del film (inizia qui la fortunatissima collaborazione con Angelo Badalamenti).“Nei sogni io cammino con te, nei sogni io posso toccarti” canta Roy Osiborne, ma nel film non è l’angelica Laura Dern a intonarla ma guarda caso proprio il diabolico Dean Stockwell, quasi a sottolineare ancora una volta la natura ambigua e affascinante del Male. Quella natura ambigua presente anche nel giovane Jeffrey e che porta Dorothy ad esclamare “Mi ha infettato la sua malattia” rivolgendosi al nostro alter ego Lynchiano.
E’ proprio un mondo strano e non basteranno due lieti fine consecutivi a cancellare dalla mente una esperienza così traumatica. Perché, ormai la lezione l’abbiamo imparata, dietro tutta questa armonia e apparente idillio, ci sono tumulti infernali ed equilibrismi diabolici, ombre lunghissime come in un paesaggio pomeridiano di Edward Hopper. E il sipario blu si chiude.


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Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
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Da: Aosta (AO)
Inviato: 10-08-2006 15:23  
C

CASINO'

CASINO di Martin Scorsese 1995 (Money)

Sembra di rivedere Quei Bravi Ragazzi del 1990 ma in realtà ci sono delle sostanziali differenze.
E’ vero, c’è la voce narrante, c’è Joe Pesci, c’è Bob De Niro, la Mafia, i soldi, la corruzione, i tradimenti, la violenza, però si nota un percorso evolutivo che va in un'altra direzione.
Innanzi tutto il livello di ironia e umorismo si abbassano drasticamente e lo stesso personaggio di Joe Pesci perde il dono dell’autoanalisi clownesca e incrementa il potenziale violento e distruttivo.
Stavolta il personaggio che risalta e prende campo è quello femminile, con una Sharon Stone che regala forse la migliore performance della sua carriera e ben incarna la dipendenza psicologica di certe donne per uomini sfruttatori e ignobili, e la spirale di errori, lacrimoni e pentimenti che si innesca su tale perversione masochistica.
De Niro disegna un personaggio nevrotico perfezionista e paranoico, dominato dal denaro e che con il denaro ha l’illusione di potere comprare anche l’amore della inquieta Sharon Stone: unica scommessa che il grande Bob perde, ma è quella che fa crollare tutto il suo mondo e che trascina i complici nella rovina. In certe schermaglie familiari sembra di rivedere le liti tra marito e moglie in Toro Scatenato, ma stavolta non c’è redenzione ma perdizione. Da segnalare nella prima parte la minuziosa descrizione del flusso di denaro che dalle macchinette del Casinò arriva alle tasche dei vari boss mafiosi, con la corruzione di apparati dello Stato e coperture ai più alti livelli (apologia della mazzetta). Scene di inaudita violenza (una per tutte quella del campo di granoturco con Joe Pesci e fratello).
Scorsese invecchiando diventa più cinico, ma non è sempre un male. Las Vegas come capitale immorale di un mondo che succhia il sangue di uomini travolti dalla dipendenza e dal vizio. Resta un momento di riflessione, nel grande deserto intorno che circonda Las Vegas, nel grande vuoto su cui è costruito questo accattivante Paese dei Balocchi. Ma è solo un momento, poi si ritorna cinicamente a scommettere, alla faccia del Big Dream.
Meritato Golden Globe a Sharon Stone
Immeritato silenzio di critica e successo di pubblico tiepido (spiegabile forse con la lunghezza del film quasi tre ore).
Ultimo capolavoro di Scorsese. Kundun (1997), Al di là della vita (1999), Gangs of New York e The Aviator sono nettamente inferiori (con qualche attenuante per Bringing out the dead).

CRASH
CRASH contatto fisico

Un film mediocre, che dà un colpo al cerchio e uno alla botte, che strizza l’occhio ai giurati conigli dell’Academy Awards che preferiscono dargli l’Oscar come miglior film piuttosto che premiare film più degni come Munich, Good Night and Good Luck o Brokeback..
Ma la lobby ebraica ha posto il suo veto, Clooney non è leccaculo come Eastwood ed ad Ang Lee gli diamo il contentino della miglior regia..
E non mi parlate di Altman per favore, basta prendere come parametro i dialoghi tra i due teppisti neri (una scimmiottatura patetica dei dialoghi e delle situazioni di Pulp Fiction, con particolare riferimento al cinese sotto la macchina) per rendersi conto del baratro che divide Haggis dal maestro. Forse è più azzeccato il riferimento a Magnolia di PT Anderson ma con una differenza fondamentale: qui il livello degli attori (con l’eccezione della sorpresa Matt Dillon) è più basso e il film pur sceneggiato e strutturato con acume e rigore narrativo, ne soffre.
Una Los Angeles dove non c’è contatto, dove non c’è comunicazione, dove neri e bianchi, arabi e cinesi parlano lingue incomprensibili a volte taglienti come armi, dove la neve cade come in un miracolo ma non spegne i fuochi dei falò. Ci sono alcuni momenti intensi e l’episodio della bambina angelo col mantello “invisibile” è cinematograficamente azzeccato ma la serie di tranelli e colpi bassi allo spettatore è davvero elevata. L’abuso di potere del poliziotto Dillon vs la paranoia razzista disseminata ovunque. A volte basta solo evocare, suggerire, Haggis ci sbatte in faccia coincidenze e luoghi comuni in quantità industriale, neri ai posti dipotere che si comportano peggio dei bianchi, donne depresse e paranoiche che cambiano serrature e pettinature, il regista che rigira una scena scendendo a patti, un salvataggio eroico che è la solita iperbole americana, uno stacco su un babbo natale che grida vendetta al cielo. La frase marzulliana “Tu mi crei imbarazzo, crei imbarazzo a tè stesso…” resta nella storia delle peggiori battute del secolo così come la finale “Questa è l’America, qui il tempo è denaro”. E poi quando vedo i cinesi liberati dal teppista convertito e di nuovo un tamponamento tra diverse razze mi chiedo, imbufalito: Ma come si fa a premiare con l’Oscar un film così mediocre?”



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Schizobis

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Inviato: 10-08-2006 15:28  
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DOLLS http://forumfilmup.leonardo.it/forum/viewtopic.php?topic=6249&forum=4&start=15&post_id=1075464#post_hl
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Schizobis

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Da: Aosta (AO)
Inviato: 10-08-2006 15:33  
E

ERASERHEAD

Per la recensione vedi qui:
http://www.cinemaplus.it/leggi-recensione.asp?id=2011

[ Questo messaggio è stato modificato da: Schizobis il 24-09-2006 alle 18:21 ]

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Schizobis

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Inviato: 10-08-2006 15:36  
E

ELEPHANT

ELEPHANT di Gus Van Sant 2003

Il film trae spunto da un fatto di cronaca, il massacro di studenti e professori compiuto da due studenti in un liceo di Portland nell’Oregon nel 1999.
Gus Van Sant sceglie la strada del minimalismo e della sperimentazione (un po’ ricorda il più provocatorio Haneke di Niente da Nascondere 2005) e destruttura la narrazione seguendo i vari ragazzi e ragazze nei lunghi corridoi della scuola e incrociando i diversi piani temporali e i punti di vista.I lunghi piano sequenza che seguono le vittime e i carnefici creano un effetto di straniamento che sospende ogni giudizio e controlla ogni coinvolgimento emotivo. Non vi è alcuna ragione di dare delle spiegazioni per un fatto che rimane assurdo e inspiegabile. Quello che Van Sant suggerisce (anche se cade nell’errore della scena della doccia omosessuale, che potrebbe dare adito a interpretazioni fuorvianti) è che questo orrore è figlio della società americana, è frutto della normalità quotidiana, è inevitabile pegno di un disagio adolescenziale specchio di una società alla deriva. I padri sono ubriachi o assenti e i figli uccidono le persone come in un videogioco, ordinando le armi via Internet. Si gioca a football americano e si guardano i nazisti alla Tv ma la solitudine è la stessa. Continuiamo a non accorgerci dell’elefante dentro la nostra stanza (detto americano dal quale prende origine il titolo del film), continuiamo a fare finta di non vedere la solitudine e il rancore dei nostri figli, perseveriamo diabolicamente a pensare ai fatti nostri.
Ma la musica di Beethoven scatena questi giovani naufraghi. E il dito medio rabbioso contro lo spartito musicale vale più di mille libri mandati al rogo. La guerra è dichiarata.

Bello ma sopravvalutato.
Premio miglior film e miglior regia a Cannes 2004
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Schizobis

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E

THE ELEPHANT MAN

THE ELEPHANT MAN di David Lynch (l’impossibilità ad essere normali) 1980

Dopo le sperimentazioni d’avanguardia di Eraserhead del 1976, David Lynch, sostenuto da Mel Brooks e Jonathan Ranger, firma nel 1980 in un altro splendido bianco e nero (fotografia di Freddie Francis) , il racconto della “straight story” , della vera vicenda di John (Jack) Merrick , orribilmente sfigurato e menomato da una rara malattia la neurofibromatosi, nella londra vittoriana (1884) densa di fumi e rumori pre industriali. Il film sembra, a una prima superficiale lettura, molto rigoroso e asciutto dal punto di vista narrativo, perfino troppo tradizionale per essere un film di Lynch. Siamo lontani dalle atmosfere da incubo metafisico di Eraserhead, ma il tocco del genio Lynch si sente ovunque.
Prima di tutto nell’incipit basato su due occhi femminili (di madre) e sul sogno dell’elefante che a mio parere non è che una proiezione di Merrick per spiegare l’inspiegabile.
La madre al quarto mese di gravidanza venne calpestata da un elefante: questo incidente fece partorire il mostro Merrick che , a differenza di Eraserhead, è un mostro con una sensibilità ed una coscienza. Lynch si schiera apertamente dalla parte del mostro e inserisce nel racconto dei tocchi d’artista: l’orrore e lo spavento del mostro Merrick che vede sé stesso in uno specchio, lo sfruttamento da parte della società spettacolo circo del fenomeno da baraccone a scopi economici, lo sfruttamento da parte della società scientifico medica del caso clinico per soddisfare ambizioni carrieristiche. Lynch è eccezionale nel mostrare le analogie fra i due tipi di esibizione soprattutto spostando la camera dall’elephant man, allo sguardo inorridito e sconvolto degli spettatori. Mostrando indirettamente un orrore dal vago sapore voyeristico in un sottofondo rumoroso e inquietante. E’ facile credere Merrick un menomato anche mentale, invece il buon John sa a memoria il 23° Salmo ed è appassionato di teatro, ha un animo delicato e tanta paura del mondo circostante, popolato da ubriachi avidi violenti (dei veri e propri mostri). “La gente ha paura di ciò che non capisce” ma si potrebbe aggiungere che ne è anche voyeuristicamente attratta e che in fondo a liberare Merrick dalla gabbia con le scimmie in cui è costretto in penosa esibizione, sono propri nani ed altri esseri deformi, solidali nella fortuna beffarda che li ha condannati.
Credo che il punto critico del film sia un sogno di normalità ripetutamente inseguito dall’elephant man e la lucida consapevolezza che l’unica persona che l’abbia veramente amato sia stata la madre (che gli ha insegnato a leggere e a scrivere).Il buco nel cappuccio che copre il capo deforme di John Merrick non è che la porticina, il buco lynchiano che ci porta in un'altra dimensione, quella onirica.


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F

FELLINI
http://forumfilmup.leonardo.it/forum/viewtopic.php?mode=viewtopic&topic=37903&forum=3&start=0

FERRO3
FERRO 3

Una mazza da golf un po’ diversa dalle altre, qualcosa di speciale che non riesce a trovare il suo contesto. Riempire le case vuote (e le esistenze vuote) con la propria solitudine.
Ki-Duk Kim (Primavera, Estate, Autunno, Inverno e ancora Primavera) riesce a creare ancora un film davvero straordinario, reggendolo sui silenzi, sulle cose non dette, sulle emozioni appena accennate, sulle immagini dai colori accesi (bellissima fotografia) che hanno l’impatto visivo di quadri che emanano calore. Rosso, rosso fuoco, calore. La sorpresa maggiore è che passi 90 minuti a bocca aperta, senza mai uno sbadiglio, senza mai una caduta di tensione.
Qualcuno ha scomodato Antonioni ma, nonostante una palese citazione di Blow Up , (quando il protagonista si trova chiuso in cella con altri compagni, mima una partita di golf invisibile con rissa finale per una pallina che non c’è, che richiama il finale di Blow Up con partita a tennis mimata e dubbio amletico se raccogliere una palla da tennis che non esiste) c’è una distanza abissale tra i due autori. Pur partendo da basi comuni (l’irrapresentabilità della realtà, l’uso narrativo dell’immagine, i silenzi e le pause come motivo dominante) i due autori divergono proprio nel tono e nelle conclusioni. Tanto comunicativo e passionale il coreano, rosso sangue quanto freddo e algido il ferrarese, al limite del nichilismo. Tanto leggero il primo (la bilancia segna 0, l’amore vince la forza di gravità), tanto pesante il secondo, schiacciato come Sisifo da un peso insostenibile, quello di esistere. Il protagonista di Ki-Duk Kim mostra una catarsi interiore e un lento aprirsi della sua monade al prossimo proprio nel momento in cui interviene nella realtà per modificarla. Non si perde in elucubrazioni cerebrali o cinici esercizi di stile. Non si arrende all’incomunicabilità tra gli esseri umani ma la aggira con la solidarietà e la pietas (stupendo l’impacchettamento del morto, solo chi rispetta i morti ha rispetto per la vita). La forza di Ki-Duk Kim sta nella lezione di volo (fantastica la sequenza delle prove di fuga in cella): per imparare a volare bisogna imparare ad essere come morto, imparare a rendersi invisibile e guardare tutto di nascosto, come se fosse la prima volta, con gli occhi di un bambino che continua a giocare a nascondino. L’amore è anche questo convivere con l’assenza, colpire per finta una palla da golf come se fosse l’ultima volta. L’amore ha questa consistenza di sogno, dove tutto è possibile, anche quello che non lo è. Voltati, è proprio lì dietro le tue spalle…

LA FORESTA DEI PUGNALI VOLANTI

LA FORESTA DEI PUGNALI VOLANTI di Zhang Yimou 2004 (tre di tre)

A m’arcord. Era il 1994 ed ero in una sala milanese (Cinema President di Largo Augusto) insieme alla sventurata di turno a massacrarmi i coglioni con Vivere! di Zhang Yimou. Mentre mi crogiolavo nella serie interminabile di disgrazie che capita ai protagonisti e una mia mano colta da pruderie adolescenziali cercava di farsi varco tra le fenditure della camicetta della vicina, notai con stupore che la poveretta non aveva retto e si era addormentata. Era l’ultimo spettacolo ma l’umiliazione fu grande. Subito dopo mi abbioccai anch’io. Ricordo che alla fine del film vennero a svegliarci e ci fecero gentilmente notare che non potevamo passare la notte lì.

Perché vi dico questo? Perché lo stesso regista che ha avuto su di me (ancora immaturo brufoloso adolescente) l’effetto del cloroformio (non vorrei essere blasfemo ma comunque reputo Zhang Yimou un grande maestro e Lanterne Rosse il suo capolavoro) poco meno di otto anni dopo mi stupiva con Hero (2002) e mi estasiava soprattutto con questo “La Foresta dei Pugnali Volanti”(2004). La storia è molto semplice: ci troviamo nell’antica Cina (850 Dopo Cristo circa) e il potere della dinastia Tang sta andando in rovina corroso dal malgoverno e dalla corruzione. Ad organizzare la Resistenza la setta dei “pugnali volanti” i cui capi sono misteriosi quanto temibili. Una danzatrice cieca (una leggerissima Zhang Ziyi) sembra essere un ottimo cavallo di Troia per scoprire sede e organizzatori dei “pugnali volanti”. Due guardie dell’imperatore (gli ottimi Takeshi Kaneshiro e Andy Lau) l’accompagnano in un lungo viaggio (di formazione) dentro la foresta e scopriranno sulla loro pelle che la verità è soltanto una bugia non detta. La cecità visiva diventa cecità mentale: come si fa a non accorgersi della Verità?Perché basta così poco per cadere nell’errore di valutazione?Dove finisce la ragion di stato e inizia il destino del singolo individuo?
Fotografato da Zao Xiaoding in maniera impeccabile con uso “over” di colori (sia in interni che in esterni), rappresentato in una forma molto vicina al teatro e curato nei minimi dettagli (si notino gli sgargianti abiti d’epoca e la cura nella descrizione degli ambienti), il film ha il suo notevole punto di forza nella descrizione di questo rapporto a tre in cui ,quasi ad ogni scena, Zhang Yimou cambia i rapporti di forze, mettendo ora l’uno ora l’altro in condizione di inferiorità psicologica. Un sentimento che accomuna i tre è il rimorso ed è vissuto da ciascuno alla sua maniera, rispettando analisi psicologica e coerenza narrativa. Non vi svelerò il finale (una volta tanto) ma sappiate che è un altro momento geniale del film e una conferma che la cecità mentale è più letale di quella fisica. I combattimenti sono avvincenti e certe soluzioni estetiche (i guerrieri che sembrano volare sulla foresta di bambù, le traiettorie da biliardo magico dei pugnali, la soggettiva di frecce che sembrano telecomandate) colpiscono il centro del bersaglio(metaforico e non) e non debordano dal gustoso piatto ma ne armonizzano il sapore. Basterebbe una sola scena a rendere questo film unico: quella del “passo dell’eco danzante” della giovane acrobata cieca sulle note di una musica senza tempo. Gli equilibrismi riescono bene quando si tratta di danza, sarà molto più complesso trovare questo equilibrio tra i tre contendenti in Amore. Grande Cinema, signori.

FACE/OFF

FACE OFF di John Woo 1997 (doppia identità)

John goes to Hollywood e sforna dopo il successo di Broken Arrow, il film che più si avvicina ai romantici momenti di The Killer e di A better tomorrow. Il regista ha sempre contrapposto l’immagine del bene e del male ma alla separazione banalmente manichea ha sostituito una totale mancanza di confini etici e la crisi di identità. Lo stile è inconfondibile ed è caratterizzato da accelerazioni e poi improvvise decelerazioni (con uso di moviola), da esagerazioni estetizzanti e richiami spirituali, colombe nella chiesa (ricordate the Killer?) e depersonalizzazione dei due protagonisti. Il super cattivone Nick Cage impersona lo psicopatico folle omicida Castor Troy in maniera sublime e ne svela anche il lato (apparentemente OFF) di fratello apprensivo (che cura in quell’allacciare le stringhe delle scarpe al fratellino) e di padre suo malgrado (e a sua insaputa).
John Travolta (qui perde il confronto con il bravo Nick) è invece il buon detective Sean Acher cui Castor ha ucciso per errore il figlioletto (ma per errore): la vendetta stravolge la mente e i comportamenti del nostro poliziotto ed emerge il lato (apparentemente OFF) irascibile e paranoico, mal sopportato da figlia metallara e moglie dottoressa. L’idea geniale è quella di fare trapiantare la faccia del nostro Nick megalomane all’incazzatissimo agente FBI Travolta. Il problema è che nascono gli intoppi, Nick si trapianta la faccia di Travolta ed abbiamo uno scambio di identità e di destini. La società incasella i buoni come buoni e i cattivi come cattivi dopo avere riconosciuti i connotati: da questo grande inganno è difficile uscirne indenni. Assunta la faccia di Cage il Travolta da buono viene giudicato cattivo e si ritrova in un penitenziario del futuro tra stivaloni magnetici ed immagini rassicuranti degli schermi. Come uscirne? Woo è sadico quando infierisce mostrandoci Cage che con la faccia di Travolta non solo fa una rapida escalation ai vertici della FBI (per ricoprire certi ruoli apicali uno dei requisiti è la ambizione senza scrupoli etici?) ma si scopa moglie e a momenti anche la figlia del nostro povero detective recluso. La bravura di Woo è di portare la narrazione al livello in cui lo spettatore si chiede:e adesso? Come si può uscire da questa situazione? Altro tocco geniale è che fa avvicinare a metà strada i due protagonisti, prima veramente antitetici e agli antipodi: infatti fa umanizzare un po’ di più Cage con la faccia di Travolta (sublime la frase:”Bugie, diffidenze, situazioni ambigue….sta diventando un matrimonio vero” riferita ai sospetti della dottoressa sull’identità dell’uomo con cui giace la notte) e addirittura lo porta alla tomba del bambino da lui ucciso (e qui il cattivone distoglie lo sguardo e reclina il capo in un abozzo di pentimento). E poi fa incattivire Il Travolta con la faccia di Cage in maniera tale da non sopportare più nemmeno l’immagine allo specchio e gli fa placare ogni furia vendicativa (voglio strappargli via la faccia, FACE OFF) venendo a contatto con la famiglia (disastrata) del grande nemico.Chi sono io? Non sono più uomo, io? Quando i due puntano le pistole verso l’immagine di sé stessi riflessa allo specchio capiamo che la crisi di identità è sfociata in delirio paranoico e questi due folli assomigliano tanto al Travis decadente di Taxi Driver o forse al Martin Sheen schizzato di Apocalypse Now. 137 minuti di film ma non si avvertono, tanto la narrazione è fluida e le scene mozzafiato. Solita resa dei conti con inseguimento sull’acqua ed effetti speciali strabordanti (il trapianto di faccia è da brivido). Nel finale John Woo paga il dazio ad Hollywood e si inventa la famiglia ideale (roba veramente vomitevole) e strappa l’applauso allo spettatorucolo medio americano ingozzato di coca cola e pop corn. Peccato.


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Inviato: 11-08-2006 15:00  
G

GOOD NIGHT AND GOOD LUCK

GOOD NIGHT AND GOOD LUCK di George Clooney

Film necessario questo di George Clooney , film che dovrebbe essere fatto vedere nelle scuole, nelle università, nelle aule parlamentari….
In gioco abbiamo la libertà di stampa, i diritti civili, messi in gioco tra il 1950 e il 1954 da un ubriacone folle senatore del Wisconsin Joseph Mccarthy che cavalca la psicosi collettiva della caccia alle streghe comuniste e passa tristemente alla storia per i suoi metodi poco legali e la sua lista di proscrizione fascista che mieterà molte vittime illustri (pensate che persino Bogart era pedinato dall’FBI!!!!). Se la crociata psicopatica di Mccarthy si concluderà nel 1954 con una censura da parte del senato su un proprio membro (fatto inusuale nella politica americana) e segnerà la rovina di Mccarthy che morirà tre anni dopo alcolista e solo, lo si deve soprattutto al coraggio di Ed Murrow, giornalista della CBS che in piena tempesta emotiva mantiene salda la lucidità per affermare il principio di giustizia. In un bianco e nero documentaristico, Clooney inserisce materiale d’epoca (le apparizioni in tv del senatore Joseph Mccarthy) che rende la narrazione avvincente e di taglio giornalistico. La figura di Murrow, fermo saldo con la sua sigaretta nella mano sinistra acquista una dimensione quasi epica e un rigore morale d’altri tempi. Clooney non entra dentro i meandri della storia, cerca di narrare a flash senza preoccuparsi troppo di dover spiegare tutto. Il discorso di Murrow che apre e chiude il film è datato 1958, appena dopo la morte del grande nemico Mccarthy ed è un canto di vittoria. Quando è in gioco la libertà individuale non possiamo tirarci indietro. Il silenzio ci renderebbe complici.
Dobbiamo denunciare ogni forma di neomaccartismo, di caccia alle streghe inquisitoria, di deliri fondamentalistici. Non esiste il pericolo rosso. Il pericolo rosso (nero, giallo etc etc etc) è un pretesto nato nella malafede. E’ la scusa del lupo per divorare l’agnello.

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INDAGINE SU DI UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO

INDAGINE SU DI UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO di Elio Petri

Il film è del 1970 ma ha ancora oggi una forza eversiva e un impatto socio politico importante.
La tesi di Petri (e del cosceneggiatore Pirro) è semplice ma allo stesso tempo agghiacciante: i poteri costituiti (politico, religioso, militare) si fondano su un terribile postulato: essere al di sopra della legge e del suo giudizio. Un commissario della sezione omicidi viene promosso alla sezione politica e, consapevole della sua inattaccabilità, dopo avere soppresso la sua amante per gelosia (come un comune mediocre marrito tradito) cerca di autoaccusarsi e di scardinare dall’interno le ipocrisie e le coperture del sistema di potere. Gian Maria Volontè è abilissimo nell’incarnare la scissione schizofrenica di un uomo piccolissimo nella gestione del rapporto sessuale con la sua amante e allo stesso tempo con un potere immenso nel rappresentare la legge ed ogni forma più becera di repressione d’autorità (memorabile il suo discorso d’insediamento al nuovo posto di potere).
L’incapacità a letto del nostro commissario siculo e le frustrazioni che ne derivano si trasformano in sadico esercizio di potere e lucida repressione di ogni forma di libertà espressiva.
Non a caso, i primi atti intrapresi da capo della sezione politica sono quelli di avere sotto mano ogni tipo di informazione sui suoi ex colleghi della squadra omicidi, in una equazione informazione=potere che rappresenta la più subdola forma di dittatura.
Un sistema di tale genere non può garantire alcuna forma di giustizia. La legge non è uguale per tutti e il giovane rivoluzionario ne è talmente consapevole che non accusa il suo rivale in amore, il commissario assassino, certo della sua impunità.
Il sipario si chiude su una riunione carbonara, una di quelle tante riunioni fuori legge, che hanno deciso le sorti del nostro paese e lasciato tanti delitti impuniti.
Una di quelle riunioni dove si è costruita una falsa verità (che si chiami Ustica, piazza Fontana; il caso Mattei, il delitto DeMauro, Calvi, l’Italicus, le stragi Falcone e Borsellino, la latitanza di Provenzano etc etc etc…..).
Film attuale, specchio di un paese che non riesce a fare luce su tanti misteri solo perché la sua corrotta classe dirigente non può e non vuole.
Oscar per il miglior film straniero nel 1970.
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L

LOST HIGHWAY
per la recensione vedi qui:

[ Questo messaggio è stato modificato da: Schizobis il 08-09-2006 alle 23:22 ] http://www.cinemaplus.it/leggi-recensione.asp?id=2010

[ Questo messaggio è stato modificato da: Schizobis il 24-09-2006 alle 18:25 ]

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Inviato: 15-08-2006 10:16  
M

MEMENTO

MEMENTO di Cristopher Nolan ovvero la distruzione della persistenza della memoria

Non è un thriller, né un giallo classico questo di Cristopher Nolan ma un incubo a ritroso che ha la sua logica spiegazione negli ultimi 5 minuti . Il film è costruito saggiamente con una avvincente alternanza di bianco e nero e colore, flashback che si concatenano a ritroso in un sottofondo di flusso di coscienza del protagonista Guy Pierce, abile nel mostrare la confusione spazio temporale di un uomo che dopo un trauma, ha perso la memoria a breve termine.
Man mano che procediamo a ritroso scopriamo i tanti pezzi del puzzle tatuati sulla pelle del protagonista e ricostruiamo noi il vero sviluppo anterogrado della storia.
A volte è meglio non ricordare e cancellare il passato con un semplice battito di ciglia, meglio costruirsi una sorta di storia speculare (una richiesta di risarcimento che apparentemente riguarda due estranei) e vivere un senso di colpa alternativo, più sostenibile. La distruzione della persistenza della memoria è un meccanismo di difesa contro l’aggressione del mondo esterno ma in questo modo si è preda di avvoltoi senza scrupoli, si chiamino essi Teddy (falso amico) che Natalie (falso amore).Il menomato, il ritardato, il mostro in balia di una sceneggiata ordita a sua insaputa. In mezzo a tutta questa finzione, l’unica cosa di cui ti puoi fidare sono i tuoi appunti indelebili, i tuoi post-it tatuati, i tuoi memento fotografati. L’unica realtà è catturata da una foto e al nostro protagonista bastano due minuti per diventare da vittima a carnefice, bastano due minuti per completare la vendetta segnando un numero di targa e scrivendo su una foto la frase pietra miliare: “non credere alle sue bugie.”
Che in fondo vuol dire: “non accettare la triste realtà di questo mondo…”

MATCH POINT

MATCH POINT (delitto e castigo nell’upper class londinese)

Film drammatico, questo di Woody Allen, con qualche risvolto tragico (sottolineato dalla musica di Verdi) e pochi accenni più sarcastici che comici. Ben sceneggiato e con alcuni momenti veramente notevoli (il primo rapporto tra Nola e Chris in mezzo a un prato, la scena dell’incontro tra i due amanti al Tate Modern, il senso di colpa dostoevskiano che si materializza in fantasmi, il finale molto meno consolatorio di quanto si possa pensare). Fa terribilmente sul serio Woody come se l’età gli avesse fatto crescere quel senso di disillusione e cinismo, comunque presenti sottotraccia anche nei film più comici. Più di due ore di film per raccontarci la solita storia di tradimenti, di enormi pressioni psicologiche, di esistenze vuote ricolme di nulla, di vite dominate dall’evento casuale e private del dono dell’auto determinazione. Il vuoto di senso abbraccia le vite dei protagonisti e li divora a uno a uno, alimentandosi di passione e desideri, di paure ancestrali e insicurezze sempre più devastanti. Chris ha capito di non avere talento tennistico e si è fermato in tempo, fa l’allenatore e vive una esistenza di ripiego tra libri e arie d’opera. Ci sono due modi per cambiare vita, cercare di omologarsi all’upper class, godendone i privilegi (stiamo con Chloe, la sposiamo e ne sfruttiamo il padre riccone per la scalata nel mondo della finanza) oppure riconoscere le affinità elettive con Nola (una che continua a provarci nonostante lo scarso talento, una specie di Chris ante litteram) e lasciarsi andare alla passione e alla libertà, riconoscendo la vita che si vorrebbe vivere ma che le convenzioni sociali ci negano in maniera ipocrita. Il film sta tutto in questo contrasto, acuito dal fatto che il caso può prendere in mano le nostre vite e stritolarle in un secondo. Chloe (la moglie di Chris) è imbrigliata dalla figura materna autoritaria (dannatamente opprimente) e dal successo economico del padre (che aiuta in tutti i modi, da buon padre ma da cattivo suocero, il sempre più distratto Chris). Chloe sembra agire per paragoni (con le cugine, con il fratello, con i genitori, con Nola) e i suoi desideri sembrano più prove di emulazione che passioni sincere. Rivelatorie sono le frasi: “Voglio un figlio, tutte le mie cugine sono in cinta” e quella finale, quando anche questo desiderio di maternità è stato felicemente appagato in cui esorta il povero Chris “adesso dobbiamo avere un secondo figlio, e sarà femmina” emulando la doppia gravidanza della cognata.
E Chris che fa? Come l’eroe di delitto e castigo vorrebbe che altri decidessero per lui, che la polizia scoprisse il suo terribile doppio omicidio (anzi triplo omicidio), che il suo senso di colpa e il rimorso venissero placati da un bel paio di manette.
Invece la pena più grande, la punizione più severa ed inappellabile è questo ergastolo familiare a cui è condannato, e i suoi occhi nel finale che cercano fuori una impossibile via di fuga sono l’emblema di una vita di cui adesso è definitivo prigioniero.

Qualcuno ha scomodato Kieslowski ma ho la sensazione che la grande differenza tra Allen e il maestro Polacco non è solo stilistica ma anche filosofica soprattutto nel rovesciamento dei ruoli carnefice-vittima
Il film mi ha ricordato più La Promessa di Sean Penn per la destrutturazione e requiem (da parte del Caso) del solito romanzo giallo.
Il film mi ha anche ricordato Sliding Doors non solo per l’ambientazione londinese ma per certe sovrapposizioni dello sviluppo narrativo.
Da segnalare una invasione massiccia di microfoni di scena (uno in particolare arriva fino a metà schermo e sembra ingropparsi Scarlet).

VOTO 7 1/2

MAN ON THE MOON

MAN ON THE MOON di Milos Forman 1999

Un film su un comico atipico, Andy Kaufman morto di cancro a 46 anni, non prima di avere creato scompiglio nell’estabilishment hollywoodiano. Jim Carrey (qui in una interpretazione da manuale ignorata dai membri dell’Academy Awards) si cala alla grande nella personalità schizoide di un uomo con due anime, quella bambina di Andy con vocina stridula e occhietti circospetti e quella rozza e cinica di Tony, alter ego scorbutico e odioso, vera pattumiera psichica di tutto ciò che Andy veramente pensa di questo mondo, di questo pubblico.
Un comico che non è un comico, un uomo che usa il silenzio per provocare, un uomo che vorrebbe il pubblico all’altezza dei suoi sogni, un bambino che vorrebbe per primo divertire sé stesso. Ed ecco che accade l’irreparabile: Andy ingaggia una battaglia col pubblico (con il mondo) in una escalation di provocazioni, di finzioni su finzioni, di rovesciamento della realtà talmente esasperata da confondere tutti, i suoi genitori, la sua donna, il manager Danny De Vito, il dirigente Vincent Schiavelli (ottima interpretazione, la migliore dai tempi di Ghost)).
Un clown americano che odia le sit com ma ne diventa la star, un comico eretico che si infuria a dover fare sempre lo stesso personaggio e al culmine dell’autolesionismo legge in pubblico il grande Gatsby di Scott Fitzgerald per l’applauso di un unico solitario spettatore.
Nel frattempo il conflitto tra Andy e il mondo diventa più evidente, nonostante meditazioni yoga e combattimenti di wrestling per scaricare l’aggressività. Le provocazioni sono talmente esagerate da trasformare le risate in odio. Andy manipola il pubblico e la realtà:il mondo è solo illusione e non bisogna prendersi sul serio.Ma la magia della trasformazione gli si rivolta contro. Il conflitto da esterno diventa interiore: Andy ha davvero un Cancro ma nessuno gli crede. E quando Andy va in un viaggio della speranza da un medico filippino che guarisce il cancro asportandolo a mani nude, si accorge del terribile inganno e non può che riderne amaramente.
Andy capisce il grande bluff che sottende la nostra vita e ,dal grande schermo, nell’orazione funebre di sé stesso, lancia un messaggio di solidarietà e di riconoscenza per chi lo ha amato.
Ed è buffo che mentre Andy vola via, sopravvive l’anima becera e violenta di Tony.
Forman sembra amaramente constatare che in questo mondo solo quelli come Tony possono cantare “I Will Survive”. Ma le caricature dei grandi comici del passato forse suggeriscono un altro tipo di eternità. Un altro comico raccoglierà il testimone di Andy?
Finale stupendamente enigmatico e spiazzante.

MILLION DOLLAR BABY
THE MILLION DOLLAR BABY (perché odio Clint Eastwood)

Spinto da una voglia autolesionistica, ma con tutte le migliori intenzioni, mi sono visto il pluripremiato Million Dollar Baby dello sceriffo Eastwood.
Io odio questo tipo di Cinema, superficiale e reazionario, dove la fiducia cieca nell’uomo diventa pretestuosa e presuntuosa autodeterminazione.
Un esempio per tutti: il dialogo in chiesa con il prete sul tema dell’eutanasia. Come si può affrontare e liquidare in tre battute (“Non lo ha chiesto a Dio, l’ha chiesto a me!) un tema così difficile e controverso. Come si può far passare liscia la ipercaratterizzazione dell’anziano allenatore, all’occorrenza medico che sutura le ferite (meglio del vero medico che si becca un presuntuoso “incompetente”) o solerte infermiere che tratta terribili piaghe da decubito (naturalmente meglio degli infermieri dell’ospedale, peccato poi che la gamba verrà amputata lo stesso). Guarda caso i rapporti padre figlia sono assenti, guarda caso Clint rivede nella Swank una possibile figlia, guarda caso SPOILER alla fine del film ci sarà il tentativo di riconciliazione.
Tutto già visto e sentito. La ragazzina che cerca di trovare successo (e rispetto) nella boxe (ah, american dream, che ppalle però), l’allenatore che si vede soffiare i campioni perché ha paura di farli lottare per il titolo, Morgan Freeman (unico attore convincente di questo film) che ha perso un occhio al 109 esimo incontro e che riesce a vincere il 110 con uno che ha vent’anni meno di lui, Clint che rivede figlia e campionessa nella povera Hilary, destinata sin dal principio al martirio Eastwoodiano….martirio giustificato da questa orrenda frase “Pero almeno ha vissuto, ha visto realizzati i suoi sogni” come se l’essenza della mediocrità fosse fare normalmente il proprio mestiere, come se l’unica ragione di vivere è impegnarsi in un sogno al di sopra delle proprie possibilità, cercando di dimostrare a una madre obesa e avida di denaro qualcosa che non può mai essere dimostrato…
Che posso dire?
Questo modo di fare cinema è lontanissimo dal mio modo di interpretare la realtà.
Se volete vedere un bel film su genitori e figli, guardate L’ora di Religione.
Se volete vedere un bel film sul pugilato, guardate Toro Scatenato.
Eastwood adesso è convinto di essere davvero il meglio. Ma il suo cinema, per quanto acclamatoe di successo, è un continuo sbatacchiare di ragnatele e polvere, un presuntuoso e irritante show del deja vù’ autocelebrativo.

VOTO 3


MUNICH

MUNICH di Steven Spielberg (ovvero Peter Pan e l’isola che non c’è)

Grande Steven Spielberg, ex grande imbonitore,ex bravo artigiano del cinema spettacolo puro, finalmente una prova d’autore.Stavolta mi inchino e riconosco che ha sfornato un film perfetto, altro che girato in fretta e cerchiobottista. Non da un colpo al cerchio e uno alla botte, no, no , questo è proprio il film dove ha il coraggio di puntare il dito contro quell’ebreo che non vuole spezzare il pane insieme a un altro fratello ebreo sullo sfondo di un panorama newyorkese che un altro Settembre (quello del 2001) modificherà irreparabilmente.
Grandissimo Spielberg, tu ebreo Spielberg che tiri fuori dal cilindro il più grande atto d’accusa contro l’odio preconcetto, contro la violenza per la violenza, indipendentemente da che parte sorga.
Autocritica lucida e spietata condotta con un rigore estremo e una attenzione particolare alle frasi dette dai protagonisti. Ragazzi Peter Pan è cresciuto e adesso fa una autoanalisi quasi maniacale dei difetti di un tempo. Volete un esempio: c’è un dialogo a metà film, il protagonista Avner (un Eric Bana duttile e convincente) dice alla moglie che ha da poco partorito “tu sei la mia casa..”e la moglie con un sorriso beffardo “non ti sembra un po’ banale?”. Spielberg supera il suo grande limite e e fa lui stesso splendida autocritica.
Il film zoppeggia solo in un momento, quando Avner chiama casa e al telefono, sentendo la voce della figlia, scoppia a piangere. Ma onestamente è una breve caduta di gusto e non impatta minimamente nell’economia del film. Film che è invece incalzante e avvincente nel presentare le diverse spedizioni punitive del commando punitivo (fuorilegge) ebreo in varie città d’Europa, Roma, Parigi, Atene, Londra, quasi a volere suggerire una metastatizzazione della violenza. Dov’è che è eccezionale Spielberg?: nell’operare un progressivo mutamento nel carattere dei personaggi. Più la violenza aumenta e diventa raccapricciante più i protagonisti, a uno a uno avvertono il disagio e la coscienza che probabilmente stanno passando dalla parte del torto. Il dubbio si insinua serpeggiando e a volte li rende impacciati e molto umani in queste azioni paramilitari. C’è la sensazione che Avner (padre della luce in ebraico) si accorga che la sua abitudine al sangue e alla violenza, il suo acquisito apparente cinismo e facilità nell’uccidere un altro uomo lo abbiano portato fuori dai confini dell’umanità e della civiltà. Sono uomini che sbagliano, che tremano, che non riescono a sfilare una pistola dalla tasca, che creano bombe o troppo deboli o troppo potenti (grandissimo Mathieu Kassovitz, il regista de L’Odio), che sparano a una donna e poi riconoscono di averne leso la dignità non coprendone il nudo cadavere, che diventano paranoici perché il male che essi hanno compiuto adesso li insegue ad ogni battito di porta, ad ogni ombra furtiva, ad ogni macchina sospetta. Sparare a una donna o a un ragazzino o a un pericoloso terrorista non fa più molta differenza. Uomini comuni e non superuomini da fantascienza. Uomini che vorrebbero farsi una bella olandese appetibile (contro la regola del suo vecchio cinema Spielberg fa desiderare ad Avner l’incontro clandestino oltre a fargli scopare la moglie in cinta), uomini che hanno la coscienza che forse i propri padri non sono eroi e che le madri sono troppo prese da odi atavici e fratture insanabili per accorgersi della crisi dei figli. Il grande dubbio è:Ma se ci sono le prove di un coinvolgimento diretto o indiretto di queste persone nella strage di Monaco del Settembre Nero perché non arrestarli e processarli civilmente?. Forse la risposta è troppo semplice: di prove non ne esiste nemmeno l’ombra. Solo sospetti e con i sospetti si rischia nuovamente lo sterminio di uomini innocenti. Forse la risposta è meglio negarsela per non impazzire. Il grido d’orrore di Spielberg è altissimo e senza retorica e il finale del film lo conferma. La tristezza durerà, il conflitto Israele-Palestina non si risolverà accatastando morti da entrambe le parti. SPOILER. Le immagini della strage di Monaco 72 si alternano sulla descrizione di un coito meccanico fatto da un uomo con gli occhi sbarrati sull’abisso, come se l’orrore vissuto lo avesse fatto diventare un bambino sperduto nel buio, come se l’odio e la violenza esercitati per così tanto tempo e così intensamente gli avessero strappato via per sempre l’anima. Ma adesso non c’è più Peter Pan Spielberg con il lieto fine. Adesso Peter Pan Spielberg è diventato un autore.

VOTO 10


MARE DENTRO
MAR ADENTRO di Alejandro Amenabar (morire per iniziare finalmente a vivere)

“Corri, tu che puoi…”

“Sei tranquillo, sei sempre più tranquillo….immagina un grande schermo…che piano piano si allarga…concentrati sul respiro devi lasciarlo andare e venire” come le onde del tuo mare: ecco il grande incipit di questo gioiellino di Amenabar che pone nel potere liberatorio dell’immaginario filmico (e non) una possibile fuga dal male di vivere. Sì perché quella di Ramon Sampedro non è vita, da ventisei anni tetraplegico per un tuffo maldestro in una zona di risacca, da ventisei anni costretto a letto, dipendente in tutto e per tutto, senza intimità, senza dignità.
In questa reclusione forzata il buon Ramon sviluppa una intelligenza e una lucidità spaventose che lo portano serenamente ad invocare la morte, e con essa la libertà da questo ergastolo in orizzontale.
Ramon è talmente determinato in questa sua richiesta da coinvolgere emotivamente tutti quelli che gli stanno accanto: i familiari che nonostante il grande dolore finiscono per parteggiare per lui (ad eccezione del granitico fratello) avvocati e giornalisti, amori veri e presunti (che cadranno all’apparir del vero). Bella la sottolineatura di Amenabar sulla soggettività della scelta (“Io dico che sono io che voglio morire, ma capisco e rispetto gli altri tetraplegici che continuano a soffrire e a vivere”) e sulla mancanza di egoismo che caratterizza i grandi Amori (“Ho capito Ramon, la tua scelta e poiché ti amo ti aiuterò a farlo”). Grandissime acrobazie registiche sulle note della Turandot di Puccini (“Nessun dorma”) e volo immaginario e infinito verso quel grande mare che aveva dato la vita ma poi l’aveva ripresa con gli interessi. Mai retorico (a parte i saluti finali), spesso ironico e pungente (l’autoironia di Ramon sulla sua condizione di paralizzato genera tra le migliori freddure del film), abbastanza duro con certi atteggiamenti sclerotico-gesuitici (“Lei, padre, ha la bocca troppo larga”) che tendono a innescare nei familiari un assurdo senso di colpa e sono lontanissimi dalle lacrime umane e dalla compassione. Che il discorso di Ramon non sia errato ce lo conferma la triste parabola dell’avvocatessa Julia (innamorata, ma fino a che punto? la paura le toglie la libertà di decidere!) che trascorre i suoi giorni senza memoria e senza coscienza (“Chi è Ramon?”). Io credo che, se uno come Ramon mi chiedesse, con questa lucidità e serenità, di farla finita, di aiutarlo a morire, io gli verrei incontro e scioglierei questa pesante gogna che lo tiene ancora crocefisso alla terra. Il tramonto porta con sé il triste presentimento del buio oltre la siepe e l’assurdità che un solo istante possa determinare il destino di una vita. “Domani piove” dice il nonno e il suo presentimento è più di una previsione. Purtroppo.
Amenabar centra perfettamente il tono del racconto e analizza la problematica eutanasica con occhio scientifico e antropologico.Gli attori lo seguono diligentemente, con un cinico e autoironico Javier Bardem (Ramon) tre metri sopra il cielo. Musica scelta accuratamente spaziando tra il classico ( il Fidelio di Beethoven e Cosi fan tutte e Tristano e Isotta di Mozart) e l’autoctono (Negra Sombra di Carlos Nunez).
In fondo, decurtato da ogni orpello emozionale e da ogni eufemismo demagogico, il succo del discorso è molto più semplice di quanto possa sembrare: come Ramon dice a Rosa nel loro primo rivelatorio incontro, quello di cui un uomo ha bisogno non è la ipocrita compassione, o la pesantezza di un giudizio morale, ma semplicemente il sacrosanto rispetto della sua volontà.




Mare Dentro Mare Dentro
Senza peso nel fondo
Dove si avvera il sogno
Due volontà fanno avere
Un desiderio nell’incontro
Il tuo sguardo, il mio sguardo
Come un’eco che ripete senza parole
Più dentro più dentro
Fino al di là del tutto
Attraverso il sangue e il midollo
Però sempre mi sveglio
E sempre voglio essere morto
Per restare con la mia bocca sempre preso
Nella rete dei tuoi capelli

MULHOLLAND DRIVE

MULHOLLAND DRIVE di David Lynch (ovvero l’ottativo del cuore tradotto in un presente infelice)

La prima volta che vidi questo film (con pochi intimi) ebbi netta la sensazione di trovarmi di fronte ad una opera d’arte, assolutamente immortale, e di stare assistendo a quel cinema che scava dentro l’essere come entità psichica alla ricerca di sentimenti ed emozioni sommerse allo scopo di riportarle intatte alla luce per una cosciente autoanalisi.
Questo brivido intenso l’avvertii molto distintamente nel momento esatto in cui le due donne protagoniste la bionda algida Naomi Watts (Betty-Diane) e la bruna caliente Laura Helena Harring (Rita-Camilla con parrucca bionda mimetica) entrano alle tre di notte nel Club Silencio e ascoltano Rebecca del Rio intonare magistralmente, senza alcuna banda, senza alcuna orchestra, la canzone Llorando (che è la traduzione in spagnolo della famosa Crying di Roy Osiborne).
In quel momento capii esattamente che quello che avevo veduto fino a quel momento era un sogno (il sogno di una vita diversa fatto da Diane) e mi immedesimai nelle lacrime di Naomi Watts che anch’essa realizza l’inconsistenza del sogno e il dolore di un amore tradito e umiliato. Quando il mago ci avverte che pur non essendoci la banda (no hay banda) noi continuiamo a sentire la musica non si può fare a meno di pensare che Naomi Watts –Diane ha trasposto nei suoi sogni tutte le speranze e le gioie negate dalla vita reale. Quello che abbiamo visto, sentito, odorato, gustato, toccato semplicemente non c’è. Ce lo siamo creati noi per sopravvivere. Ce lo siamo immaginato per rinviare il nostro conto aperto con la morte.Un cinema che sostituisce le caratteristiche oraganolettiche con le sensazioni interne dell’inconscio e ce li riporta a livello di coscienza con una coerenza narrativa che diviene sorprendente. In Lost Highway David Lynch pur trattando pressapoco lo stesso magmatico e incandescente tema (Fred Madison nel braccio della morte diventa Pete Dayton per una seconda possibilità di vita, cercando di realizzare in quest’ultima tutti i desideri inappagati e repressi) aveva imboccato la via della deformazione narrativa e corporale, della caduta libera diabolica sulle note sataniche di un heavy rock, dell’horror vacui di Sodoma e Gomorra, della crisi di identità che però sfugge all’autosoppressione volontaria. Al contrario in Mulholland Drive, David Lynch abbassa il tono di qualche livello, prende la musica di Angelo Badalamenti e la sparge come ovatta sul materiale brulicante del sogno, ipertrofizza la storia d’amore tra le due donne e sostituisce l’incubo grondante sangue con una spiritualità (non religiosa) malinconica, con una partecipazione affettiva verso il destino della protagonista che ne rasenta la identificazione. Vi riporto alla memoria la festa in cui il regista Adam e Camilla (Laura Helena Harring) annunciano il loro imminente matrimonio sotto gli occhi di Naomi-Diane pietrificati dal dolore che si scioglieranno in piccole lacrime di rabbia. In quella serata così intensa dal punto di vista emotivo per Diane (così intensa che personaggi e situazioni le rimarranno talmente impressi da determinare tutta la prima parte del film, il sogno di Diane, vero e proprio tentativo di riscatto di Diane da un completo fallimento, professionale e sentimentale, con un ribaltamento di ruoli e nomi che è preso pari pari dall’Interpretazione dei Sogni di Freud) c’è un gesto particolare che viene sottolineato dalla regia portentosa di David Lynch. Mentre Coco (la madre del regista Adam) ascolta i racconti di Naomi Diane sulla sua vita professionale e personale, non può fare a meno di immedesimarsi, di creare una empatia che si trasforma in un gesto pieno di significato: allunga la sua mano verso quella di Diane e la accarezza con un fare materno e comprensivo ma molto vicino alla compassione. Ecco cosa mancava in Lost Highway, la compassione. Le figure genitoriali (che dovrebbero rappresentare il Super Io censore) sono assenti nel racconto di Diane alla festa. C’è la zia Ruth, ci sono i suoi provini, c’è Camilla, la nuova compagna Cinthya ma non c’ è ombra di madre e padre. La chiave interpretativa del film sta in questa assenza che io credo sia solo affettiva e non reale. E’ più facile pensare a dei genitori che non approvano la scelta di Diane di fare l’attrice a Los Angeles, disapprovazione che si aggiunge al rifiuto per i gusti sessuali della figlia (Diane è lesbica). Ed ecco che nel sogno Diane se li immagina a fianco queste figure genitoriali, in un volo metaforico (dall’Ontario alla California) che rappresenta la grande possibilità di fare carriera ad Hollywood e diventare una stella del Cinema. Guardate gli occhi di Naomi all’arrivo all’aeroporto di Los Angeles. Sono gli occhi innocenti di chi ancora ha fiducia in sé stessa, nelle possibilità che la vita ha ancora da offrire, in un cielo azzurro limpido dove fare spaziare tutti i sogni di gloria.

Un piccolo ragguaglio sulla storia, apparentemente intricata ma abbastanza intellegibile (ancora di più che in Lost Highway).


MULHOLLAND DRIVE (2001) (la strada perduta nel Pacifico, mare dell’oggettività)

“Si fermi soltanto un secondo e ci pensi, potrebbe farlo per me?”

In Lost Highway avevo fatto un richiamo alla deformazione corporea e alla pittura di Francis Bacon; in Mulholland Drive direi che la deformazione si stempera in un surrealismo malinconico, molto ben ancorato a cose e riferimenti della vita reale che però assumono nuove valenze da sogno psicoanalitico (direi più Magritte, Olbinski forse Tanguy, forse Ernst).
La prima parte del film è appunto tutta un sogno (surreale) di Diane e questo lo capiamo solamente dopo la scena del club Silencio. Il sogno di Diane finisce nel momento esatto in cui il cowboy “elettrico” le esclama: “è ora di svegliarsi, bambina” e noi notiamo ancora qualche frammento di un sogno che muore (la zia Ruth, nella vita reale già morta da tempo, si aggira ancora nella sua casa ormai vuota, abbandonata dopo l’apertura del cubo dai fantasmi onirici di Rita-Camilla e Betty-Diane) e troviamo Diane a letto, sfatta e con occhi tristi, che viene risvegliata dalla ex amante Cynthya (altra storia andata a male) che viene a riprendersi i suoi effetti personali. Notiamo sul tavolino una piccola chiave blu e questa ha un significato ben preciso che spiegheremo più avanti. Due detective la stanno cercando e questo ci fa capire che qualcosa, nel frattempo , è successo. Mentre vediamo Diane avere ancora allucinazioni (immagina ancora presente la sua grande amica amante Camilla Rita, e immagina l’ultima volta in cui ha fatto l’amore con lei anche se già ci accorgiamo che il rapporto si è incrinato per la presenza di un altro uomo, il regista Adam, di cui adesso Camilla Rita è innamorata) , attraverso i flashback ricostruiamo quello che è successo: Diane era arrivata a Los Angeles dal Canada con grandi speranze, certa del suo talento e con tanta voglia di emergere, approfittando della intercessione della zia Ruth, vicina all’ambiente di Hollywood. Arriva finalmente il provino decisivo, l’occasione della vita, la possibilità di avere una parte in un film importante. Ma il regista Bob, sceglie come protagonista Camilla Rhodes, bruna latina, completamente immagine opposta di Diane. Diane e Camilla diventano comunque amiche e successivamente amanti. Diane è lesbica, per Camilla è la prima esperienza (nel sogno vengono invece ribaltate le parti). Camilla si sente in colpa con Diane e riesce a farle trovare qualche particina nei film successivi che gira. Camilla diventa una star, Diane dipende professionalmente da lei, per qualche comparsata. Diane è anche innamoratissima di Camilla, quest’ultima però, ha gusti sessuali più orientati verso l’altro sesso, e sul set si innamora del regista Adam, astro nascente di Hollywood. All’umiliazione professionale (fantastica e sadica la scena di Adam e Camilla sulla macchina che provano un bacio molto veritiero con la frase insensibile “si Diane può restare a guardare”) si aggiunge il tradimento d’amore consumato con un sadismo inusitato. Dopo l’ennesimo feroce litigio tra le due, Camilla, in un misto di sadico risentimento, invita l’ex Diane alla festa a casa del regista Adam, su Mulholland Drive. Dal momento in cui Diane viene prelevata con la Limousine a casa sua e portata nel luogo del ricevimento le immagini che si susseguono nel reale avranno una forte carica inconscia sulla nostra Diane, che partorirà il sogno della sua vita cambiata e con un altro finale, l’ottativo del cuore tradotto in un presente infelice. Il momento in cui la macchina si ferma crea un momento di sorpresa (che nel sogno diventa minaccia con la pistola, stavolta subita dalla immagine rovesciata di Camilla, cioè Rita) in Diane. Ma lo sconcerto dura un momento, Camilla arriva a prelevarla e la accompagna tenendola per mano dentro quella selva oscura che è la vita. E’ l’unico momento di tenerezza di Camilla verso Diane, una specie di viaggio d’addio, un congedo malinconico esaltato dalla splendida colonna sonora di Angelo Badalamenti. Dal momento in cui Diane entra nella casa di Adam dovete tenere gli occhi ben aperti perché in cinque minuti sono racchiusi tutti i significati della prima parte del film. La comparsa di Coco, madre del regista Adam, (figura autoritaria prima severa per il ritardo di Diane poi comprensiva e compassionevole ai racconti ingenui della povera biondina canadese) viene ribaltata nella prima parte del film in una figura materna da sempre assente nella vita di Diane, con l’ esaltazione delll’aspetto apprensivo ma anche del giudizio morale (notate come reagisce alla presenza di Rita a casa di Betty-Diane, quasi facendo intuire un legame non solo d’amicizia tra le due ma qualcosa di diverso). Un avventore al tavolo è Angelo Badalamenti (il mafioso che sputa l’espresso all’americana e non all’italiana nel sogno), la ragazza che bacia Camilla alla festa (sulla bocca, ma è un immaginazione di Diane o davvero è già stata sostituita da un nuovo legame lesbico?) diventerà colei che viene prescelta con il nome di Camilla Rhodes e imposta da una produzione mafiosa al regista (“è lei la ragazza”) sempre nella prima parte onirica del film. Si parla anche di un uomo che dovrebbe pulire una piscina e anche questo avrà un senso.
Il momento dell’annuncio del matrimonio tra Camilla e Adam diventa l’ultima ferita inferta nella già fragile psiche di Diane (e proprio in quel momento passa il cowboy elettrico che nella prima parte del film è una sorta di misterioso deus ex machina che determina tutto il fluire degli avvenimenti e le decisioni dei protagonisti) e da quel momento matura nella mente sconvolta di Diane l’idea di rivolgersi a un Killer e pagarlo (notate la borsetta con i soldi e la chiave blu promessa a lavoro compiuto che sono il filo conduttore che unisce sogno e realtà) per fare fuori la tanto amata-odiata ex amica-amante Camilla. La scena dell’incontro tra i due al Winkie’s è un’altra fonte di materiale subconscio che emerge nel sogno. La cameriera Betty dalla quale Diane importerà il suo nuovo nome (da aspirante attrice a cameriera, che trasformazione!), l’uomo del sogno nel sogno che in fondo rappresenta la coscienza del mostro che si nasconde nel cortile del retro della nostra anima, quello stesso mostro che ci fa compiere azioni vergognose ma che poi partorisce il senso di colpa che ci porterà al suicidio; infine lo stesso killer che verrà ribaltato come pasticcione tarantiniano in una delle scene più tragicomiche del film (che sottolinea i timori di Diane di affidare un omicidio per commissione magari a un imbecille imbranato, timori non del tutto infondati perché due detectives sono già sulle sue tracce). Diane segue l’Interpretazione dei Sogni di Freud come un manuale di cucina e si ritaglia nel sogno il ruolo di guida di una Rita-Camilla, sconvolta dall’amnesia post traumatica (“io non so chi sono, non so nemmeno come mi chiamo”) e quindi in balia degli eventi. Betty-Diane in questa nuova luminosa vita riesce a fare un provino strepitoso (il regista Bob viene rappresentato in maniera vendicativa come un mentecatto e il suo compagno di recita Wallie liquidato come troppo vecchio) e si permette di abbandonare il secondo provino con il regista Adam ed evitare una quasi certa umiliazione (i loro occhi che si incrociano sono lo specchio di possibilità inesplorate, di storie interrotte sul nascere, magari era proprio lei la ragazza…). Sul regista Adam, Betty-Diane infierisce in maniera particolare: nel suo viaggio onirico, lo immagina tradito con l’uomo che pulisce la piscina, licenziato dalla produzione, braccato da mafiosi e creditori, convocato da Dio-padre cowboy elettrico e strizzato ben benino (“L’atteggiamento di un uomo va di pari passo con quello che sarà la sua vita”). Su Rita-Camilla invece Betty-Diane assume un atteggiamento ambivalente (e non potrebbe essere altrimenti) e da una parte ipertrofizza l’atteggiamento protettivo e di guida, dall’altro ombre sinistre delle vere tenebre dell’anima si proiettano anche sul sogno, lasciando intravedere un pericolo (come dice la sensitiva dai capelli rossi che tanto somiglia alla zia Ruth). Nella doppia crisi di identità vi è anche un tentativo di mimetizzazione con parrucca bionda quasi a evidenziare che tutte e due le donne sono create dalla stessa persona (un po’come rendere simile a Diane la bruna Camilla, non è a volte questo l’amore, il volere la persona amata più simile a noi?). Lo spettacolo del Club Silenzio squarcia il velo delle ipocrisie e delle illusioni, e alla fine un pacco di soldi e una chiave blu dentro una borsetta rompono l’incanto della magia onirica e fanno emergere nient’altro che la cruda verità. Si può piangere e impazzire per un amore che non c’è più. Qui si arriva addirittura ad annullare l’oggetto del desiderio, lo si annienta per possederlo per sempre. Ma non si sfugge al super io genitoriale censore, Diane guardando la chiave blu sul suo tavolino capisce che il delitto è compiuto, un passaggio irreversibile è stato attraversato, emergono così i due vecchiettini, la legge morale del super io (che si forma proprio con l’educazione e le regole imposte dai propri genitori) che schiaccia Diane sotto il peso delle sue responsabilità e del suo fallimento umano. Coscienza significa autosoppressione. Un colpo di pistola è l’unica via di uscita dall’incubo. Non c’è più banda, né orchestra. L’unico momento felice è stata una gara di ballo, un jitterbug anni 50 illuminato dal sorriso radioso della protagonista con accanto orgogliosi mamma e papà. Adesso anche quei momenti sono andati perduti (come lacrime nel sogno). E’ stato tutto un gioco di illusionismo costruito sulle macerie di una disintegrazione psichica. Non è forse questo il Cinema? Silencio.







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NUOVO CINEMA PARADISO

NUOVO CINEMA PARADISO di Peppuccio Tornatore 1988 (Amarcord alla siciliana)

Uscito quasi inosservato in una prima versione enciclopedica, il film venne ridimensionato tra tagli e omissioni, ma l’accorciamento lo fece diventare un capolavoro. Raccolta di Premi dovunque con la ciliegina della torta dell’Oscar come miglior film straniero nel 1989.
Tornatore è ispiratissimo e si vede già dal bellissimo incipit di natura morta con mare sullo sfondo, in un gusto simmetrico e pittorico della rappresentazione. La storia di Totò giovane proiezionista che eredita il mestiere dal padre adottivo Alfredo (un Philippe Noiret che tira fuori dal cilindro una interpretazione veramente toccante) è in parte autobiografica. Gli episodi dell’infanzia del piccolo Totò sono davvero spassosi ed il modo di narrare di Tornatore è carico di umanità e simpatia per i suoi personaggi. Dove Tornatore spicca il volo è in certi dettagli e certi svolazzi della punteggiatura filmica: una scena su tutte quella di Totò bambino che accompagna (e consola) la madre dopo avere ricevuto la certezza della morte del padre (e marito) nella campagna di Russia. La camera inquadra il viso della madre dal basso verso l’alto (è il punto di vista di Totò) mentre piange ma Tornatore, con grande bravura, riequilibra la retorica del momento facendo prevalere l’amore per il Cinema e il punto di vista del giovane proiezionista che riesce a consolarsi e ad abbozzare un sorriso sul manifesto di Via col Vento. So che molti critici storceranno il muso, ma in questo passaggio colgo un parallelo fortissimo con il finale di Ladri di Biciclette, con un bambino che consola un adulto e cerca di trascinarlo fuori da una realtà amara e senza speranza.
Ancora la proiezione “per tutti” all’aperto sul muro di una casa e l’arena d’estate con le barche dei pescatori che fanno da splendida cornice sono avvero dei colpi da maestro.
Certi episodi sembrano richiamare il Fellini di Amarcord (la masturbazione collettiva, il cinema come luogo di ritrovo, la censura dei preti, la follia dello scemo del villaggio).
Peppuccio zoppica un po’ quando deve tratteggiare la figura femminile e in effetti i tagli della pellicola credo abbiano sacrificato lo spessore psicologico del personaggio di Agnese Nano.
A un certo punto il cieco Noiret (che in realtà ha ormai tutto chiaro) capisce che la salvezza di Totò è nel fuggire dai fantasmi che si ritrova intorno e spezzare l’incantesimo malvagio di una terra “amara” che rischia di incatenarlo nell’immobilità. E’ come se il mantenere la distanza dalle cose ne conservi più a lungo il ricordo, come se tagliare le radici possa in qualche modo fermare il tempo al momento della separazione. La vita non è il Cinema, nella vita reale l’amore è cancellato da rozze mani bigotte come i tagli di una censura. Scorrono davanti agli occhi tutti i baci che avremmo potuto dare, tutte le labbra che avremmo potuto sfiorare, tutti gli abbracci che ci avrebbero potuto consolare. Ma siamo solo spettatori di frammenti di sogno e la magia del Cinema è nutrirsi e nutrirci di questi sogni per potere sopravvivere. Tra una capriola di Charlot e una smorfia di Totò, tra l’Ulisse Kirk Douglas e le pruderie adolescenziali di Brigitte Bardot, tra il vitellone Sordi e il mambo della Mangano, quello che scorre davanti agli occhi è il frammento di un Nuovo Paradiso. Il Cinema

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OLTRE IL GIARDINO

OLTRE IL GIARDINO di Hal Ashby 1979 (l’uomo senza qualità ovvero la prevalenza del cretino)

Se andate a fare un giro su internet alla ricerca di recensioni di questo film (titolo originale Being There) tutte concordano a definirlo un piccolo capolavoro, un film atipico che è uscito abbastanza presto dai vari circuiti di diffusione e che raramente viene riproposto in televisione.
Si sottolinea la grandissima interpretazione di Peter Sellers (una delle ultime prove del geniale attore britannico), la forza della sceneggiatura di Jerzy Kosinski (dal suo libro “Presenze”), la prova degli attori di contorno come il vecchio Melvyin Douglas (Oscar per miglior attore non protagonista) e della pimpante Shirley MacLaine (memorabile nella scena autoerotica mentre Peter Sellers guarda la Tv in maniera indifferente). Si evidenzia anche giustamente la originalità della storia, una parabola abbastanza evidente sulla ottusità e mediocrità della moderna società americana, nella quale un giardiniere analfabeta e oligofrenico viene scambiato per guru della politica e dell’alta finanza. Qualcuno ha scomodato il paragone con Forrest Gump ma la differenza fondamentale è che Chance-Peter Sellers è passivo e totalmente incosciente di quel che gli accade attorno mentre Forrest Gump-Tom Hanks possiede il dono della autocoscienza per elevare il suo esempio a filosofia di vita (la famosa massima della scatola di cioccolatini).
Ebbene pur condividendo gran parte dei giudizi su questo film, mi permangono delle perplessità.
La prima è l’eccessiva lentezza della narrazione che non ha molti sussulti e si poggia prevalentemente sulla robusta presenza del grande Peter Sellers; forse è l’accadimento temporale degli eventi, forse la totale semplicità di alcune situazioni, forse l’eccessivo uso dei vuoti sui pieni, resta un atipico senso di stanchezza e pesantezza.
La seconda è che se mi chiedete immagini memorabili o scene da leggenda, vi rispondo che non ne ricordo molte (a parte la sopraccitata scena seduttiva ed il finale sapientemente blasfemo).
Resta comunque la feroce invettiva su tutta la società americana (che ruota attorno al concetto della casualità, del trovarsi lì, per caso e in cui sembra ormai definita la “prevalenza del cretino”), dagli avvocati avidi ai giornalisti senza scrupoli, dai servizi segreti imbambolati alla finanza fatta da morti viventi, dal presidente degli Stati Uniti ottuso ( e con qualche problemino a letto) alle riccone annoiate e illuse da un amore che non c’è. Il quadro è completo e grottesco, ma terribilmente vicino alla verità.
Non perdetevi i titoli di coda con tutti i ciak rifatti da Peter Sellers che non riusciva a rimanere serio durante le riprese.
Film rimandato a Settembre, a una seconda visione.


OUT OF SIGHT

OUT OF SIGHT di Steven Sodenbergh 1999 (guardie e ladri)

Sodenbergh è capace di alternare film leggeri e di sano intrattenimento con altre opere più dense e impegnate, molto d’autore. Ma la sua mano si avverte sempre, anche in questo riuscito Out of Sight che vede il ladro Clooney e la guardia Jennifer Lopez rincorrersi e intrecciare ruoli professionali e slanci sentimentali. Ritmo avvincente ma anche pause al posto giusto, attenzione puntigliosa ai dialoghi tra i personaggi e continue spruzzate di ironia e sarcasmo.
Riuscire a fare recitare bene la Lopez non è impresa facile ma onestamente il regista riesce a dare credibilità a un personaggio quantomeno ambiguo. Quando dopo la scopata con Clooney, la nostra amata Jenny capisce di essersi innamorata, ha la classica reazione di aggressione verbale al nostro amato Mr Martini, timorosa dell’ennesima fregatura. La risposta di Clooney e la sua comunicazione verbale e non verbale sono da manuale: c’è da mandare a memoria quel pezzo di sceneggiatura per tranquillizzare i pentimenti post coitali. Uso dei flashback azzeccato e narrazione fluida e scattante.
Clooney giganteggia e con Sodenbergh dà sempre il meglio di sé (ma non è un ladro troppo buono?). Peccato per la descrizione dei soliti neri cattivi e per il finale stirato e inamidato (ma onestamente non era facile trovare una via d’uscita).
Due ore di divertimento intelligente.
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