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Autore La fuga dei cervelli
gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
Messaggi: 15032
Da: Roma (RM)
Inviato: 14-01-2004 14:59  
dal Corriere della sera

Per Time è il simbolo dell'emigrazione degli scienziati europei
«Io, astronoma, scappata dall'Italia»
Sandra Savaglio: «Da noi avevo vinto un concorso: ma chi voleva il mio posto mi ha fatto processare per truffa»

Sandra Savaglio sulla copertina di «Time»
La sua è una storia di ordinaria nostalgia,ma anche di delusione e rassegnazione. «Vivo e lavoro in America, e sono un’emigrata di successo perché il mio lavoro mi sta dando grandi soddisfazioni. L’Italia? E’ dove sono nata, è il mio paese, è dove mi piacerebbe lavorare. Certo che tornerei, ma a fare che cosa?». La sua missione è scrutare le stelle, le galassie lontane, il blu dell’infinito. E’ una passione nata con Asimov, letto quasi per caso a 17 anni, in quarta liceo scientifico, e concretizzata, per ora, con un contratto a termine alla Johns Hopkins University di Baltimora, nel Maryland.

Il suo volto - bello, fiero, solare - campeggia sulla copertina del settimanale americano «Time», uno dei periodici più autorevoli del mondo. Lei, promossa star sul campo, si chiama Sandra Savaglio, è calabrese, ha 36 anni. Una settimana fa, Usa Today ha pubblicato i risultati di una ricerca effettuata con il telescopio Gemini, nelle Hawaii, da cui emergono nuove teorie sull’origine delle galassie più antiche: tra i ricercatori, appare anche il nome della dottoressa Sandra. Poi è arrivato Time , con la sua faccia sbattuta in copertina e, sullo sfondo, due bandiere, Europa e America, un bivio davanti al quale molti non hanno avuto dubbi.

Il titolo dell’inchiesta punta dritto al cuore del problema: «Così l’Europa perde le sue "stelle" della scienza». Nel mondo scientifico, anche in Italia, forse ci si sta domandando come sia possibile che una come lei, laureata in fisica a pieni voti, esperienze all’estero, molto da raccontare in campo astronomico, abbia dovuto fare i bagagli e trasferirsi altrove per poter «lavorare con tranquillità». «Ciò che fa la differenza tra America e Italia - dice l’astronoma - non sono l’esperienza, l’età, i gradi, ma la tua capacità di lavorare e raggiungere gli obiettivi». Savaglio non è la sola a pensarla così. Savaglio è una delle tante tessere di quel grande mosaico che racconta la fuga di tanti cervelli europei verso l’America. Via per convenienza, ma anche per rassegnazione: «Ho provato sulla mia pelle che cosa significhi sacrificarsi per nulla, studiare tanto, lavorare il doppio, per poi sentirsi soli e abbandonati a se stessi. Qui in America si lavora anche di più, però ti vengono riconosciuti la bravura e il talento. Come si chiama? Meritocrazia? Ecco, chi ha il coraggio di dire che in Italia esiste la meritocrazia?».

E’ finita su «Time» con tanti altri, italiani e non, scienziati da 110 e lode che si occupano di cose importanti ma hanno intrapreso un viaggio senza biglietto di ritorno, destinazione Stati Uniti. C’è Michele Pagano, professore associato di patologia alla New York University, che dice «se tu sei uno scienziato e vuoi lavorare seriamente, l’America è il posto dove puoi trovare la migliore collocazione». C’è Valerio Dorrello, anch’egli medico, anch’egli alla NYU, che culla il sogno di aprire un laboratorio di ricerca nella sua Napoli «ma con tecnologie e organizzazione americane». Ci sono spagnoli, tedeschi, ungheresi, finlandesi. E c’è lei, Sandra Savaglio, andata via dall’Italia per manifesta insofferenza nell’accettare «sistemi antichi, dove il valore dei singoli viene in secondo piano, e tutto affoga nel mare delle convenzioni e delle convenienze». Sono 400 mila gli scienziati europei che vivono attualmente negli Stati Uniti. Il paradosso è che l’Europa necessita di almeno 700 mila ricercatori entro il 2010. «E se non cambia la situazione - commenta l’astronoma - la tendenza si rafforzerà nei prossimi anni».

Il suo contratto con la Johns Hopkins scadrà nel prossimo settembre. E’ arrivata nel Maryland due anni fa. Se glielo concederanno, continuerà a lavorare lì, ogni giorno dalle 9 alle 18 con una pausa di un’ora per il pranzo. «In Italia ho conservato il posto di lavoro, senza stipendio ovviamente, all’Osservatorio di Monte Porzio, vicino Roma. Non so se tornerò, ho avuto esperienze molto negative, e ho capito che lì non c’è posto per me». Si racconta senza peli sulla lingua, con dati, cifre e nomi snocciolati in sicurezza. In questo, Sandra è molto americana: «Ho conquistato quel posto vincendo un concorso, ma sono finita sotto processo per truffa. Nel maggio del 2003 sono stata assolta perché il fatto non sussiste. Era successo che qualcuno, che aveva interesse a sistemare la propria figlia, aveva fatto ricorso. Il concorso è stato comunque rifatto, e io l’ho rivinto. Devo dire che il direttore dell’Osservatorio, Roberto Buonanno, ha cercato di aiutarmi, di starmi vicina, ma nel frattempo era maturata in me l’idea di allontanarmi dall’Italia».
Lavorava già a Baltimora, peraltro in stretto collegamento con l’Osservatorio di Monte Porzio, quando un collega le invia una mail dall’Italia: «Stavo completando con lui un lavoro sui "gamma-ray bursts", cioè le esplosioni di stelle massicce simili a supernove.

Avevo lavorato duro per trovare cose che si sono rivelate estremamente interessanti. Mi chiama questo collega, non un superiore, ma un collega di poco più anziano, e mi dice: "Sia chiaro che se pubblichiamo la ricerca, ci deve essere il mio nome come primo autore". Capito? Voleva mettersi in prima fila ancor prima di conoscere i risultati di una ricerca in gran parte svolta da me. L’articolo doveva comparire su "Nature", una rivista seria e importante. Non se ne fece nulla. Ecco come funziona in Italia. Ecco perché chi vuole lavorare seriamente deve scappare via e venire in America. Qui lavoro sodo per raggiungere un obiettivo e ho un capo che non si permetterebbe mai di appropriarsi dei miei risultati. E’ una questione di rispetto e di cultura che in Italia, forse, non impareremo mai».

E’ il sistema, accusa Savaglio, a bloccare carriere e a spegnere gli entusiasmi: «Dovevo capirlo subito. Quando mi sono laureata a Cosenza, la mia città, il relatore mi disse con chiarezza che se volevo avere sviluppi interessanti nella mia carriera sarei dovuta andare all’estero. E così ho fatto: sono stata in Germania, a Monaco, all’European Southern Osservatory già diretto dal premio Nobel Riccardo Giacconi, un altro cervello italiano che si è fatto onore lontano dall’Italia. Non è bello ma va detto: fin da giovani, coloro che amano la ricerca scientifica capiscono che il futuro non è l’Italia, non è l’Europa».

Una situazione senza rimedio? «Bisogna che cambi la mentalità, bisogna premiare il merito. E non è una questione di soldi: io a Baltimora prendo il triplo di quello che guadagnerei in Italia, ma sarei disposta a tornare e guadagnare anche molto meno se in Italia si cambiasse registro. Basta con le carriere legate a gerarchie immutabili. E basta con la burocrazia: a Roma per avere una penna nuova si deve compilare un modulo, qui vado nell’armadietto della cancelleria e la prendo». E’ un esempio minimo, ma anche dietro le piccole storture quotidiane può nascondersi una filosofia di lavoro e di comportamento difficile da accettare. Basta poco, a volte, per sentirsi apprezzati. Basta un niente per avere voglia di tornare a casa.




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Amo il mio lavoro ma ho pensato ai figli. Così sono tornata»
In America ha avuto un ruolo determinante nella scoperta della leptina, il gene dell’obesità. Ma quando ha dovuto decidere su dove far nascere i propri figli, non ha avuto dubbi. Ed ha scelto di tornare in Italia. Margherita Maffei 39 anni, laurea in antropologia, un marito e due figli, ora vive a Pisa dove grazie a Telethon è responsabile di un’unità di ricerca alla clinica universitaria di Cisanello. «Dopo quella scoperta - ha raccontato al mensile Flair - ero perfettamente consapevole che lasciare gli States voleva dire rimettere in discussione la mia carriera, anche perché sono sempre stata un tipo con mille interessi eterogenei e la nostra università è molto rigida, ha degli anticorpi per le persone anomale come me. Ma con l’incertezza si impara a convivere. Finita la mia ricerca per Telethon non ho nessuna garanzia per il futuro. Se il mio contratto non verrà rinnovato, ricomincerò a occuparmi di antropologia. E resto orgogliosa di essere riuscita allo stesso tempo seguire la carriera, gli affetti, gli interessi».


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Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento : quello in cui l'uomo sa per sempre chi è

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gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
Messaggi: 15032
Da: Roma (RM)
Inviato: 15-01-2004 11:07  
I progetti? Portare un po’ di pragmatismo nell’università»
«Lascio gli Usa per Siena:
la mia sfida per la ricerca»

Antonio Giordano, esperto di genetica e tumori, ha deciso di tornare in Italia

Antonio Giordano
A volte ritornano. Magari dopo vent’anni, ma ritornano. Sono storie di fuga all’incontrario, dall’America all’Europa e non viceversa, anche se il dottor Antonio Giordano, alla parola «fuga», sobbalza un po’: «Se vuole, le ripesco un giornale del 1915: già allora si parlava di fughe di cervelli. Ma quale fuga! Quella era gente che amava il proprio mestiere e andava a farlo dove esistevano le condizioni migliori. Proprio come oggi, proprio come me». Napoletano quarantenne, laurea in medicina, moglie italo-americana (luminare nel campo dell’oculistica), Antonio Giordano ha vissuto dal 1987 tra Filadelfia e New York. Ha lavorato per cinque anni nel laboratorio di James Watson, uno dei padri del Dna; ha prodotto scoperte decisive nel campo della genetica; ha creato un istituto modello per la ricerca sul cancro. Poi, dopo una carriera di successo e riconoscimenti, ecco la nuova, decisa virata professionale: da quest’anno, all’Università di Siena, insegnerà anatomia e guiderà un gruppo di ricerca oncologica che nasce, parole sue, con prospettive esaltanti.

Da New York alla Toscana: che cosa è accaduto, professor Giordano?
«Faccia conto di parlare con un calciatore: ho ricevuto un’offerta migliore e ho deciso di cambiare squadra».

Era in serie A: ma chi glielo ha fatto fare?
«Mi ha spinto la voglia di novità, non certo la nostalgia. E poi, lezione americana numero uno, chi si adagia è perduto».

Siena, Italia: ma allora non è così disastrata la situazione qui da noi.
«Certamente no. Tanti cervelli all’estero significano che la scuola è viva e prepara al meglio. Il problema è dopo. Dall’Italia ho ricevuto almeno quattro proposte di lavoro. Ho scelto Siena perché ho trovato un rettore, Piero Tosi, disponibile a sostenere un progetto di ricerca importante».

Su quali fronti lavorerà?
«Oncologia, tumori, ricerca genetica e i suoi collegamenti con malattie cardiovascolari e diabete. L’obiettivo è creare un ponte fra la ricerca di base e la ricerca applicata. Stringere i tempi, in sintesi, tra ciò che di nuovo si scopre e il suo utilizzo per sconfiggere la malattia».

Mai avuto problemi negli Stati Uniti?
«Chi ha talento e voglia di impegnarsi trova sempre la strada aperta. Il grande vantaggio è la competizione tra gruppi, la voglia di confrontarsi per migliorare. Non ci sono interferenze, ma c’è molta concorrenza. A Filadelfia ci sono cinque centri di ricerca sul cancro. Con due ore di macchina, a Nord come a Sud, ne trovi almeno 50. La competizione è un vantaggio per tutti, per i malati soprattutto».

Ma è davvero così tutto perfetto?
«Distinguiamo: nel mio mondo, dico sì. La cultura scientifica è all’avanguardia, la cultura tout court un po’ meno. Se sei medico, devi leggere di medicina e basta. Ma la burocrazia non esiste, i rapporti sono diretti, il governo sostiene la ricerca e anche i privati non si tirano indietro».

In Italia, invece?
«Mah... la situazione è sotto gli occhi di tutti. C’è una situazione di stallo, troppa burocrazia: è come se mancasse la voglia di progredire, di lavorare sulle idee nuove. Non accuso, sia chiaro, ma constato».

Si potrebbe rimediare?
«Ci vorrebbe una scossa poderosa al sistema. Parlo pensando agli amministratori e alle istituzioni, ma anche agli imprenditori. Bisogna valorizzare la ricerca scientifica con investimenti importanti. Va stimolata la competizione».

Riproporrà il modello americano in Italia?
«Sarebbe una sfida persa in partenza. E’ una questione di mentalità. Lo sa chi mi ha finanziato, a New York? Mario Sbarro, il fondatore della famosa catena di pizzerie e fast food. Lui mi ha dato i soldi, io ho creato un istituto che ha scoperto una proteina importante come la ciclina e cinque nuovi geni».

Impensabile in Italia: ma allora perché è tornato?
«E’ una scommessa che poggia su basi solide. Proverò a lavorare nell’istituzione portando un po’ di pragmatismo e mentalità americana. E sono certo che il mio viaggio al contrario produrrà buoni risultati».


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